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Le caratteristiche del fare cinematografico




All’atto di linguaggio corrisponde una tipologia di tre differenti tipi di fare:
- un far-sapere, riguardante la relazione cognitiva tra enunciante e enunciatario, che realizza la congiunzione di quest’ultimo con un oggetto di sapere e presuppone una competenza, ossia una semiotica, almeno parzialmente comune tra i due soggetti;
- un far-essere,il cui risultato è di porre in essere la significazione, di produrre degli enunciati;
- un far-fare, che riguarda la dimensione fattitiva del linguaggio e che consiste nel produrre degli effetti di manipolazione sull’enunciatario.
Nel caso dell’atto percettivo al quadrato proprio del cinema si avrà, per contro:
- un far-vedere, che riguarda la relazione percettiva tra i soggetti implicati e che presuppone una competenza, ossia una semiotica percettiva, comune;
- un far-essere, il cui risultato è quello di produrre oggetti di percezione, percetti, enunciabili, piuttosto che enunciati: è materia, ed è dunque senso, ma non significazione;
- un far-fare, che può sembrare limitato, nel senso che l’unico effetto pragmatico prodotto da un film sembra essere, a prima vista, quello di continuare la visione o piuttosto di interromperla. È vero però che un film fa ridere, fa piangere, ecc.; si tratta in questo caso del risultato somatico di programmi patetici: si può ben dire dunque ovviamente il cinema fa fare in quanto produce degli effetti patetici, anzi degli affetti.
Rispetto a questi tre modi di caratterizzare il fare cinematografico si possano individuare tre direzioni possibili per una semiotica che voglia porsi come oggetto la faccia isologica, propriamente simbolica del cinema – restando in tutti i sensi legittima una semiotica “sotto il linguaggio”, che si interessi all’aspetto narrativo, non isologico –:
1) una semiotica della relazione percettiva al cinema e delle competenze implicate. Essa potrebbe trovare fondamento in alcuni aspetti della teoria classica del cinema e in particolare nell’idea di fotogenia che proprio a tale relazione si riferisce. Una linea di pensiero che va da Epstein a Deleuze, passando per Mitry e Pasolini.
2) una semiotica dell’oggetto cinematografico come percetto, che renda nuovamente pertinente il segno, inteso come forma dell’enunciabile: in tal senso va vista la tipologia dei segni cinematografici proposta da Deleuze, che altrimenti risulta una sorta di divertimento alquanto incomprensibile. In questa direzione è opportuna una lettura non ingenua di Bazin, il cui realismo ontologico può essere pensato come un modo di produzione di segni di reale.
3) una semiotica del soggetto cinematografico, inteso come soggetto prodotto da percetti e affetti, dunque come soggetto sensibile e formale allo stesso tempo. In questo campo può essere utile fare riferimento agli ultimi risultati della semiotica delle passioni, che sempre più si configura come una semiotica del sensibile; ma anche gli studi su alcuni effetti/affetti cinematografici e quelli dedicati ai metageneri.

Tratto da SEMIOTICA DEI MEDIA di Nicola Giuseppe Scelsi
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