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La teoria dell’enunciazione di Benveniste


Il riferimento teorico, semiotico-linguistico che sta alla base di questa importante costatazione è la teoria dell’enunciazione di Benveniste, il quale concepisce l’enunciazione come istanza di mediazione che garantisce la conversione della lingua (intesa come sistema virtuale e come inventario finito di segni), in discorso, in un atto unico e individuale. Nonostante Schapiro non faccia mai espressamente riferimento agli scritti di Beveniste, il suo operare sembra proprio ispirarsi alla medesima strumentazione metodologica, come si evince all’analisi che dedica ad una serie di immagini medievali, raffiguranti Mosè nella battaglia contro gli Amaleciti. Nel segmento narrativo che vede il profeta con le mani tese verso il combattimento degli eserciti allo scopo di garantire la vittoria degli israeliti, Schapiro riscontra una progressiva trasformazione della postura di Mosè, dal pieno volto, con le mani alzate, al profilo con le mani giunte: una trasformazione carica di significato, poiché da soggetto in prima persona che guarda l’osservatore, Mosè diventa una figura in terza persona coinvolto nell’evento battaglia, nella narrazione storica. Ma se con Benveniste possiamo dire che si passa dalla forma di discorso alla forma storica, questo cambiamento è parallelamente portatore di significati diversi di ordine culturale, temporale metafisico. Infatti se il Mosè di faccia con le mani alzate (sorrette da Aronne e Ur), isolato dalla battaglia prefigura Cristo sulla croce, il Mosè di profilo, posto talvolta in una posizione ravvicinata alla stessa battaglia, con le mani giunte (sempre sostenute da Aronne e Ur), evoca l’officiante davanti all’altare, attualizzando il passato evento biblico nel presente della messa. L’opposizione della frontalità e del profilo diventa una forma dell’espressione correlata all’opposizione di contenuto: sacralità/umanità, passato/presente, secondo una vera e propria correlazione semisimbolica. Nel saggio Parole e Immagini Schapiro affronta il rapporto fra un testo verbale e la sua messa in immagine, un problematica che riguarda la traducibilità da un sistema all’altro e che nell’ambito della storia dell’arte è stato
affrontato soprattutto dall’iconologia. Nell’analisi di un dipinto l’iconologia procede da un primo livello, quello figurativo (iconografico) per poi passare al riconoscimento di altri livelli (intuitivo, cioè degli avvenimenti rappresentanti, e infine tematico, relativo al riconoscimento culturale), presupponendo che questi siano sempre il frutto di una traduzione visiva di qualcosa di già espresso in forma verbale. Il suo fine ultimo sarebbe dunque quello di individuare la fonte scritta di riferimento. Schapiro vuole invece togliere la pittura dal ruolo di ancella della scrittura alla quale è stata sempre indissolubilmente legata, affermando che anche un’immagine già esistente può costituire una fonte e che l’immagine deve necessariamente dare forma a qualcosa che nello scritto non può essere esplicitato. Emblematico è il caso della figurativizzazione dell’uccisione di Abele da parte di Caino: il testo sacro non f alcun riferimento allo strumento del fratricidio, mentre il visivo è costretto a dargli forma; o ancora che l’immagine nel tempo attraverso stili diversi può subire trasformazioni che si discostano dalla fonte scritta da cui derivano.

Tratto da SEMIOTICA di Alessia Muliere
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