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Il primo governo Moro - 1963/1964

Antonio Segni diede mandato a Moro di formare il governo, così che egli cedette il posto di segretario della Dc al doroteo Mariano Rumor. Moro dovette compiere lunghi e delicati negoziati coi socialisti, che ormai non si accontentavano dell'appoggio esterno e volevano partecipare attivamente al governo. Il 16 giugno Moro sembrava riuscito nel suo compito ma quella notte passò alla storia come la notte di San Gregorio: la corrente socialista di Riccardo Lombardi pose il veto al programma a causa della nebulosa e poco chiara riforma urbanistica. Moro fallì l'incarico e dette incarico a Giovanni Leone di formare un governo – ponte in attesa che i socialisti componessero le loro divergenze. Al 35° congresso del PSI Lombardi e Nenni composero le loro differenze così che il PSI, di strettissima maggioranza, approvò la mozione di partecipazione al Moro I, di cui Nenni fu vicepresidente. Il socialista Antonio Giolitti fu messo al Bilancio mentre Lombardi rifiutò incarichi ministeriali, privando il PSI della sua forza e della sua energia, vitali in quel momento.

Il programma di governo del Moro I fu così vasto e ridicolmente credibile che il presidente del Senato Cesare Merzagora lo ribattezzò ironicamente Brevi cenni sull'universo. Conteneva tutto: riforma delle regioni, riforma della scuola, riforma agraria, dell'edilizia, del fisco, delle pensioni, dell'antimonopolio; non c'era riforma che non fosse definita da Moro prioritaria.
I socialisti al governo andarono da subito incontro ad una tragedia, perdendo 38 membri tra deputati e senatori, che rifiutando l'appoggio al governo fondarono il nuovo PSIUP, uguale a quello degli anni '40. Il PSI ora avevo perso membri sia da destra (il PSDI di Saragat nel 1947) sia da sinistra.
Del resto il primo governo Moro fu un fiasco epocale. Lo zelo di Moro per le riforme si mostrò da subito assai scarso e la crisi economica gli diede il destro per alimentare il suo antologico attendismo. Il tandem Guido Carli – Emilio Colombo, la coppia democristiana che nei prossimi dieci anni piloterà le sorti dell'economia italiana, introdusse decise misure deflazionistiche che ebbero i soliti effetti: licenziamenti di massa, fallimento di piccole fabbriche, diminuzione del potere contrattuale dei lavoratori, contrazione dei consumi.
Moro ne approfittò per rimandare le riforme e proporre la cosiddetta politica in due tempi: prima ridare vigore all'economia e poi fare le riforme. Una bestemmia per i socialisti di Nenni, che però, dopo avere pagato la seconda scissione interna, non potevano mollare il governo senza dover dare ragione agli scissionisti del PSIUP. I socialisti rimasero così al governo. Anche il socialista Pieraccini, nuovo ministro dei Lavori Pubblici, fu contrastato nei suoi progetti di riforma urbanistica, paradossalmente più morbidi di quelli del democristiano Sullo; Moro teneva troppo alle lobbies agrarie di Bonomi, a quelle elettriche e quelle delle finanza, per contrariarle. Dopo una lite sull'educazione privata la misura fu colma e Moro si dimise dopo soli sei mesi di governo.

Tratto da STORIA CONTEMPORANEA di Gherardo Fabretti
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