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L'elezione di Segni a presidente della Repubblica


I MESI DELLE RIFORME. L'elezione di Segni a presidente della Repubblica, nel maggio 1962, sembra già un colpo di freno al governo appena nato. Eppure a quel governo, presieduto da Fanfani, si debbono le principali misure del centro – sinistra, più limitate di quelle promesse ma pur sempre reali.
Alcune misure iniziano ad eliminare sperequazioni arcaiche: la legge che sancisce il diritto alla donna di accedere a tutte le professioni e gli impieghi pubblici, ivi compresa la magistratura; una nuova legge sulla censura meno dura che mette in risalto l'attendismo del PSI che dalle fiamme della completa abolizione censoria passarono ad una astensione calcolata per non rompere l'equilibrio di governo, a cui il PSI forniva, lo ricordiamo, appoggio esterno proprio tramite l'uso dell'astensione.
Le leggi cardine del periodo furono però altre:
- Legge sull'estensione dell'obbligo scolastico ai 14 anni, con la scuola media unica che rompeva quello che il Giorno aveva chiamato il marchio dei poveri al bivio dei dieci anni: il dover scegliere tra scuola media e avviamento professionale al termine della scuola elementare.
- Legge sulla nazionalizzazione dell'energia elettrica. La nazionalizzazione dell'industria elettrica vide un iter lungo e difficile. Cinque erano i monopoli coinvolti (SADE, EDISON, SIP, CENTRALE e SME) che non avrebbero certo mollato in cambio di nulla. I motivi per la nazionalizzazione c'erano tutti: la possibilità per il governo di controllare i prezzi, di programmare gli interventi e gli investimenti su scala nazionale e di indebolire lo strapotere oppositivo di Confindustria. Il vero scontro fu sulla natura dell'indennizzo da concedere ai monopolisti. Si scontrò la visione continuativa di Guido Carli, governatore della Banca d'Italia, e quella abolizionistica di Riccardo Lombardi. Il primo voleva che si pagassero direttamente le vecchie aziende, che avrebbero continuato ad esistere come società finanziarie; il secondo voleva che i trust fossero aboliti e che gli indennizzi fossero versati a scaglioni a tutti gli azionisti. Vinse la posizione di Carli, che minacciò di dimettersi, ma la neonata Enel, pur cominciando un programma di investimenti massicci, non riuscì a ridurre il costo dell'elettricità per i consumatori. In termini puramente economici la battaglia di Carli fu poi un fallimento e l'influenza dei baroni, naturalmente, rimase.
- Il governo accennò un timido passo in avanti verso la sorveglianza sulle attività di borsa, applicando una ritenuta sulle cedole azionarie che rendeva pubblici i nomi degli azionisti, combatteva l'evasione fiscale e aumentava il capitale di investimento delle riforme. Prevedibilmente, invece, ciò che si manifestò fu un incremento del fenomeno della fuga dei capitali all'estero.

Tratto da STORIA CONTEMPORANEA di Gherardo Fabretti
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