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Confucio e la crisi di valori della società cinese

Abbiamo già ribadito più volte come il periodo delle primavere e degli autunni e quello degli stati combattenti, siano stati momenti in cui l’antica tradizione veniva abbandonata e in cui la società cambiava senza che un nuovo equilibrio apparentemente si producesse. Nel periodo degli stati combattenti la necessità di elaborare una nuovo e condiviso sistema di valori, che purificasse gli uomini in un periodo dominato solo da cupidigia e sete di potere si fece particolarmente pressante. Fu nel tentativo di colmare questa esigenza che numerosi maestri di  morale e teorici della politica si recarono da una corte all’altra per prestare la loro opera di consiglieri e di precettori. I più famosi erano seguiti da orde di discepoli che presto si trasformarono in vere e proprie scuole. I capi di stato li ospitavano e cercavano di evincere dal loro insegnamento nuovi e migliori strumenti per governare il loro regno e sconfiggere gli avversari. 
Questi pensatori si interessavano di argomenti anche molto diversi: alcuni si occupavano quasi esclusivamente di questioni tecniche (come rendere efficace l’amministrazione, le leggi), altri di tattiche militari, altri della natura del buon governo e del sovrano ideale; ma altri ancora elaborarono filosofie mirate alla salvezza dell’individuo che ripudiavano addirittura l’aspetto politico e sociale. Esisteva una scuola che praticava il pacifismo e altre che teorizzavano la necessitò di una sottomissione piena dei sudditi al sovrano. Si speculava sulla giustificazione del potere, sul mandato celeste. Ma la maggior parte dei pensatori si occupava di morale, di valori, di retto comportamento. L’insegnamento era indirizzato a coloro i quali governavano o avrebbero in futuro governato, con l’obiettivo di istruirli moralmente così da ottenere un futuro di pace e prosperità.

Questo era l’obiettivo del più famoso pensatore di quel tempo, Kong fuzi, conosciuto oggi con il nome latinizzato di Confucio. Nato nel principato di Lu (Shandong) nel 551 a.C. da una famiglia aristocratica di lignaggio ormai decaduto, Confucio insegnava l’antica saggezza ai suoi contemporanei in un epoca di ignoranza: “io trasmetto e non creo, credo negli antichi e li amo” è la sua frase più famosa. Nonostante sia probabilmente stato costretto a svolgere anche lavori umili per povertà della famiglia, la sua nascita gli consentì ugualmente di accedere all’istruzione classica nobiliare, allora fondata sulle sei arti: i riti, la musica, il tiro con l’arco, la guida dei carri, la calligrafia e la matematica. A partire dal 501 Confucio ricoprì vari ruoli di consigliere e funzionario nel principato di Lu, ma si dice che lo lasciò presto seccato dalla frivolezza del duca di Lu. Iniziò quindi una peregrinazione per le corti della Cina prestando la sua opera di consigliere, ma, accortosi del’inutilità della cosa, tornò nel 483 al suo paese natale dove si dedicò all’insegnamento privato e alla revisione e trascrizione dei testi antichi. Ben presto però raggiunse notorietà e attorno alla sua persona si formò una vera e propria scuola. Oggi, nonostante l’importanza del confucianesimo nella storia cinese, è molto difficile stabilire cosa effettivamente insegnasse Confucio, perché nonostante la tradizione gli attribuisca svariate opere, su ognuna di queste pesa il fondato sospetto di essere stata critta da un suo discepolo o addirittura qualche secolo dopo. La scuola confuciana (che alla morte del mastro si divise in più ramificazioni, anche molto diverse), consiste tuttavia in una serie di elementi base che costituiscono i capisaldi dell’insegnamento morale confuciano.
In primo luogo esiste un dao (= via) che costituisce il principio fondamentale dell’universo e al quale tutto deve uniformarsi, sia gli uomini che le cose. Ciò poteva essere fatto seguendo gli insegnamenti contenuti nei testi antichi (dinastia Shang e Zhou, forse addirittura precedenti) che venivano trasmessi da una “casta” o ceto di sacerdoti o “specialisti” (il termine cinese che identifica questo gruppo è controverso). Ogni individuo doveva seguire il suoi li (= codice di comportamento) che operava in tutti i rapporti sociali, sia quelli fra sovrano e sudditi, sia fa padre e figlio, marito e moglie: “il principe sia principe, il padre sia padre, il figlio figlio”.

C’è in Confucio una volontà di ripresa della struttura di potere per lignaggio (rapporti di parentela) propria della Cina arcaica, che però è integrata con elementi etici nuovi, ascrivibili alla sfera personale. O meglio: all’individuo, il quale occupa una certa posizione in virtù della sua nascita che deve rispettare (li); viene aggiunto anche un secondo obbligo, consistente nel conformarsi sinceramente ad un comportamento morale ed etico derivante dalla sua stessa posizione. La nobiltà di nascita è il prerequisito per governare, e la rettitudine di spirito e di comportamento il suo complemento, senza il quale il potere di governo non è legittimato. O detto in altri termine: solo il virtuoso al suo li (cioè al suo codice di comportamento morale ed etico) è legittimato a governare. 
Connesso al li, o meglio proprio del li di tutti gli uomini e i ceti è l’obbligo ad osservare il rem (umanità e benevolenza verso il prossimo), e il ren, che è una forma di rispetto verso l’individuo (e quindi anche verso se stessi) varia di intensità a seconda dei rapporti in considerazione: aumentando verso coloro che sono a noi superiori nella scala sociale o nella famiglia e diminuendo verso coloro che ci sono inferiori. Il suddito verso il re, il figlio verso il padre e viceversa in senso opposto. Ugualmente importanti lo zhong (lealtà) e lo shu (reciprocità), condensato quest’ultimo nella celebre massima “di non fare agli altri ciò che non desideri sia fatto a te”. 

 I rapporti interindividuali erano divisi in cinque categorie, ognuna contraddistinta da una precisa virtù da osservare. Nel primo di questi rapporti, quello fra padre e figlio si osservava la virtù della pietà filiale; nel rapporto fra sovrano e suddito quella della giustizia; fra fratello maggiore e fratello minore la virtù del rispetto per i superiori; fra marito e moglie la distinzione (e io non ho capito cos’è); infine l’unico rapporto paritario, l’amicizia, alla quale corrisponde la fedeltà. 

L’osservazione di queste norme morali era l’osservazione del dao, la giusta via. In un periodo in cui le lotte per il potere insanguinavano la Cina, Confucio predicava il rispetto per il proprio ruolo e per l’autorità da parte dei sudditi e dei ministri di corte; e la fedeltà alla virtù per i principi ed i re, affinché essi fossero di esempio al popolo e affinché il loro governo fosse giusto ed equo. 

Tratto da STORIA DELLA CINA di Lorenzo Possamai
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