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La rivolta dei boxer

La rivolta dei boxer

La crisi economica dell’agricoltura e dell’artigianato dovuta alla concorrenza occidentale e all’indebolimento generale della macchina statale, si tradusse, verso la fine del XIX secolo, in una nuova serie di violente rivolte. Queste tuttavia, si contraddistinguevano dalle precedenti per l’acceso odio antioccidentale, che spesso condusse ad eccessi contro i missionari o le imprese europee operanti nel territorio nazionale, alla cui presenza erano attribuiti tutti i mali della Cina. Fra queste rivolte, si distinse per l’ampiezza e l’intensità, quella scatenata dal movimento dei boxer (in cinese Yihequan, Pugno per la giustizia e la concordia).

La rivolta, originatasi a partire da una società segreta (come era stato anche per la maggior parte delle rivolte dei periodi precedenti), trovava la sua base sociale fra braccianti agricoli, battellieri, venditori ambulanti, monaci, disertori, vagabondi e quant’altro. Era un movimento intriso di elementi magici e popolari, come talismani e formule rituali (altro aspetto tipico delle grandi rivolte cinesi); ma il motivo ispiratore era sostanzialmente il nazionalismo. Per capire la rivolta dei boxer è necessario focalizzare la situazione in cui si trovava la Cina nel periodo a cavallo fra i due secoli: dopo aver perso entrambe le guerre dell’oppio, aver ceduto il Vietnam ai francesi e la Corea ai giapponesi (guerra sino-giapponese), dopo essere stata spartita in sfere di influenza. Insomma una situazione umiliante, alla quale si aggiungeva il disagio economico di immense masse di contadini ed artigiani immiseriti a causa dei dissesti economici provocati dalla penetrazione economica straniera e dall’inefficienza dell’amministrazione statale ormai screditata e dilaniata dai conflitti interni. La rivolta dei boxer diede voce da un lato alle masse popolari, e dall’altro ai ceti dirigenziali feriti nell’orgoglio patriottico e nazionalista. 

Storicamente i cinesi veri, quelli di razza Han, cioè appartenenti alla Cina propriamente detta e non alle province periferiche, si erano sempre considerati una nazione (se non una razza) superiore a tutte le altre popolazioni barbare confinati. Ora popoli barbari come europei e giapponesi, entravano facilmente in Cina e la dominavano senza che la dinastia riuscisse ad impedirlo. Nella morale popolare già da tempo si era insinuata l’idea che ciò fosse dovuto all’origine mancese e non Han dei Qing. Il movimento boxer cavalcò anche questa credenza, proponendosi come il prosecutore della vera stradizione, contro la dinastia e i barbari stranieri. 

Nel 1899 tuttavia, a seguito dell’appoggio prestato da importanti elementi governativi, il movimento cambiò radicalmente orientazione in merito a quest’aspetto, schierandosi al fianco della dinastia e riabilitandola quale maestra della tradizione. Si rafforzò di compenso l’attività antistraniera, con attentati ed azioni sovversive verso missionari ed entità commerciali europee e giapponesi. 
Questa situazione di instabilità proseguì intensificandosi durante tutto l’anno, mentre la dinastia - stretta fra le simpatie alla rivolta di certe sue componenti governative da un lato, e dalle pressioni dei governi esteri dall’altro- manteneva un atteggiamento ambiguo. Alla fine, con l’estendersi dell’attività sovversiva alla stessa Pechino i governi europei (preoccupati per l’incolumità dei propri diplomatici e cittadini residenti nella capitale) decisero di impadronirsi di alcune fortificazioni locali per asserragliarvisi in caso di attacco. Ciò determinò un inasprimento dell’odio contro gli stranieri: tanto che la stessa imperatrice vedova Cixi, rompendo finalmente gli indugi, decise di schierare l’esercito al fianco delle milizie boxer e dichiarare guerra a tutte le potenze straniere (21 giugno 1900). Era l’apice della rivolta dei boxer.

Da rilevare, a questo punto, è la diversa reazione che in questa circostanza si ebbe nel Sud della Cina rispetto al Nord: l’azione dei boxer si scatenò infatti soltanto nel settentrione, dove furono sterminati centinaia di missionari e migliaia di convertiti, mentre nel meridione del paese le autorità cinesi scelsero di accordarsi con gli stranieri per il mantenimento dell’ordine. 
Tornando a noi: la dichiarazione di guerra ebbe come unico effetto pratico, quello di dare il destro alle potenze straniere per un’ulteriore penetrazione: fu rapidamente organizzato un corpo di spedizione di 16mila uomini -al quale partecipò anche l’Italia con un suo contingente- che nell’ago-sto di quello stesso anno (1900), conquistò Pechino costringendo l’imperatrice e il suo governo a firmare un nuovo Protocollo che aveva il sapore di una resa senza condizioni. Anche la repressione a cui si abbandonò il corpo di spedizione dopo aver preso Pechino, del resto, fu durissima: saccheggi e distruzioni si verificarono in molte delle città della Cina settentrionale e non mancarono massacri della popolazione civile. 

L’ESITO DEL PROTOCOLLO

Se il nuovo armistizio non determinò il crollo dell’Impero e la spartizione dei suoi territori, ciò fu per via dei contrasti fra le grandi potenze: il Giappone temeva l’espansionismo russo, e preferiva che la Manciuria continuasse ad appartenere formalmente a Pechino; gli Stati Uniti -giunti in ritardo nella corsa all’Asia- non avrebbero ottenuto nulla da una spartizione coloniale della Cina, e spingevano quindi per il mantenimento dello status quo, che garantiva a tutti -pur nel contesto delle aree d’influenza- ampi margini di penetrazione commerciale. Cionondimeno la condizione dell’Impero rimaneva quella di una semicolonia, soprattutto se si pensa che in seguito al Protocollo del 1901 era stato affidato a due consorzi di banche straniere (uno franco-russo e l’altro anglo-tedesco), il compito di prelevare gli indennizzi di guerra spettanti alle potenze vincitrici. Queste avevano in gestione le voci più importanti delle finanze cinesi (dogane, dazi interni e tassa sul sale), e da esse prelevavano le rate degli indennizzi versando il rimanete al governo imperiale. In pratica il sistema finanziario imperiale era sotto controllo straniero. 

Allo stesso modo venivano gestiti gli appalti per la modernizzazione dell’immenso paese: secondo le necessità del capitalismo internazionale e secondo la divisione in aree di influenza. Così gli investimenti si concentrarono (come in tutti gli altri paesi coloniali) nei settori minerario e ferroviario, contribuendo a produrre uno sviluppo localizzato e funzionale agli interessi esteri. Emblematico è il caso della ferrovia Yunnan: meglio collegata all’Indocina francese che al resto del paese. Altro aspetto che illustra la verità del dominio semicoloniale era la situazione del Tibet: ufficialmente sotto il controllo delle autorità imperiali, ma di fatto nelle mani delle truppe inglesi. Ma l’episodio forse più incisivo fu la guerra russo-giapponese del 1905, che tanta importanza rivestì anche per la storia europea, oltre che quella cinese e giapponese. Al seguito del Protocollo del 1901 la Russia inviò diversi contingenti militari nella regione della Manciuria, da tempo meta delle sue ambizioni espansioniste in estremo oriente. Alla mossa russa però reagì prontamente il Giappone, che nel 1902 si alleò alla Gran Bretagna, preparandosi a sostenere il confronto militare contro la Russia. La guerra scoppiò nel 1904 e si concluse nel 1905 con una schiacciante vittoria nipponica che non lasciò altra strada a Mosca, se non quella di riconoscere il “preminente interesse” giapponese sulla regione della Manciuria, che veniva di comune accordo mantenuta smilitarizzata e sotto la sovranità (nominale) di Pechino. Un secondo trattato, nel 1907, stipulato in forma segreta fra le due potenze, definiva gli ultimi dettagli, per evitare che l’espansionismo russo e quello giapponese potessero nuovamente entrare in conflitto. In base a questo accordo Mongolia esterna e Manciuria settentrionale diventavano “zona russa”, mentre Corea e Manciuria meridionale passavano sotto la protezione di To-kio. La Cina insomma era spartita di fatto anche se non ancora di diritto.

EMIGRAZIONE E MUTAMENTO

La sconfitte e gli sconvolgimenti economici ebbero conseguenze pesanti sulla vita sociale ed economica dell’Impero. Oltre a segnare inesorabilmente le sorti del millenario sistema di potere imperiale essi costrinsero il sistema economico a trasformarsi e modernizzarsi con le inevitabili conseguenze tipiche di questo processo nelle economie preindustriali. È di questi anni infatti lo spaventoso fenomeno migratorio, che portò alcuni milioni di cinesi immiseriti ad emigrare verso Singapore, l’Indonesia e la Malesia, dove i cinesi sono oggi una componete consistente della popolazione. L’emigrazione era facilitata dalle autorità coloniali inglesi ed olandesi, che necessitavano di manodopera a basso costo per le loro miniere e piantagioni del sud-est asiatico. Si trattava di viaggi infami, che spessissimo costavano la vita a causa delle terribili condizioni di trasporto. Ma anche per quelli che arrivano -salvo pochi intraprendenti e fortunati che divennero ricchi e potenti- le condizioni erano spesso quelle degli schiavi salariati. Più tardi, verso la metà del novecento, le correnti dell’emigrazione si sarebbero spostate verso l’America e poi anche l’Australia, ma le condizioni non sarebbero di molto migliorate. 
Ma forse il sintomo più tangibile dei mutamento in corso era il progressivo sfaldamento della società cinese: le nuove metropoli costiere esplose con il colonialismo e l’evoluzione dello stesso esercito imperiale, erano come dei corpi estranei rispetto al resto del paese, alle campagne e alle zone interne ed isolate. La nuova borghesia mercantile, legata agli interessi stranieri, si era ormai allontanata dal mondo contadino che identificava con la miseria e la superstizione del passato, e così pure se ne era allontanata la gentry che cominciava a prendere come modello l’Occidente. 

Tratto da STORIA DELLA CINA di Lorenzo Possamai
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