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Tentativi di modernizzazione: il movimento Yangwu

Ma facciamo ora un passo indietro, e domandiamoci come la classe dirigente cinese visse ed interpretò il confronto con gli occidentali. Si tratta di una questione cruciale, perché in base al modo di reagire agli stimoli, una civiltà può vivere o morire. Se il Giappone aveva tratto giovamento del contatto con l’esterno trasformandosi in una grande potenza, come reagì la Cina a quello stesso stimolo? E perché? 
Intorno al 1860, quando la rivolta dei Taiping era al parossismo e la sconfitta nella Seconda guerra dell’oppio ancora bruciante, cominciò ad emergere una tendenza modernizzatrice in seno a certi ambienti della burocrazia e della gentry. Tele tendenza -che si proponeva di reagire alle minacce esterne ed interne attraverso l’ammodernamento dello stato ed il rafforzamento della dinastia- prese il nome di movimento yangwu, letteralmente “delle cose d’oltremare”. Base concettuale del movimento era l’assunto secondo il quale era possibile procedere alla modernizzazione dell’Impero adottando la tecnica e la scienza occidentali, pur rimanendo fedeli all’ideologia confuciana e ai valori supremi della civiltà cinese. Raccolti attorno alla celebre massima “il sapere occidentale come mezzo, il sapere cinese come fondamento”, i ‘riformatori’ crearono l’embrione di un moderno Ministero degli affari esteri, migliorando le relazioni con le potenze straniere. In campo interno si ristabilirono i tipici sistemi della responsabilità collettiva sotto il comando della gentry e corpi di milizie a livello regionale. In economia si tentò di ristabilire l’equilibrio riducendo le imposte fondiarie addirittura del 30% e permettendo ai contadini cinesi senza terra di trasferirsi nella regione della Manciuria, che fino ad allora era stata preclusa ai non nativi per volontà della dinastia. Lo scopo di tutto era riassunto nel nuovo termine di ziqiang, auto-rafforzamento, ossia rendere l’Impero di nuovo forte per poter sconfiggere i barbari stranieri. A questo scopo furono approvati ingenti stanziamenti per migliorare la rete infrastrutturale e sviluppare un settore industriale. Nel 1862 fu aperto un arsenale ad Anquing, e nel 1866 un cantiere navale; negli stessi anni venivano fondate due fabbriche di cannoni e comprate dall’Europa navi e armi per servirsene come modello. 
In trent’anni di riforme, dal 1864 (l’anno della riconquista di Nanchino e della soppressione della rivolta Taiping) al 1894-95 (anno della sconfitta contro i giapponesi), gli statisti yangwu avevano ottenuto grandi successi nelle comunicazioni e nelle finanze, nell’industria pesante come in quella leggera, e soprattutto ridato un certo respiro ai contadini nelle campagne. Questo alla luce delle difficoltà che dovettero fronteggiare nei trent’anni: continue opposizioni interne (per vie degli equilibri consolidati e delle continue rivolte) ed esterne (da parte delle potenze); ma anche per l’imprepara-zione della classe dirigente, dotata di una eccellentissima istruzione letteraria ma non pratica ed economica; e quello del reperimento dei capitali necessari agli investimenti, con le finanze statali dissestate dall’apertura al commercio mondiale e dai costi-danni delle rivolte interne e delle indennità di guerra da pagare alle potenze straniere. 
Alla fine l’esperimento riformista dovette concludersi a seguito della sconfitta contro i giapponesi del 1905. L’umiliazione di essere stati battuti da un ex regno tributario risultò troppo bruciante perché la classe dirigente potesse salvarsi dalle accuse. Già i continui oltraggi all’onore imperiale che avevano costellato gli ultimi decenni (seconda guerra dell’oppio, espansionismo russo, conquista giapponese delle Ryukyu, trasformazione del Vietnam in colonia francese) erano stati usati come pretesto per criticare il riformismo yangwu, la vittoria giapponese divenne quindi il colpo di grazia. Gli esponenti riformisti furono scaricati dalle mansioni di governo. 
Ciò tuttavia non cancello l’idea che la strada delle riforme fosse quella che, nonostante tutto, bisognava percorrere. Verso al fine del secolo erano sostanzialmente tre le correnti di pensiero dominati nella classe dirigente: i modernisti dei ‘testi moderni’, i rivoluzionari dei ‘testi antichi’, e i nazionalisti. I primi auspicavano non solo l’importazione della scienza e della tecnica occidentali, ma anche delle istituzioni politiche e sociali. Invece i rivoluzionari dei testi antichi si inserivano piuttosto sulla scia del movimento yangwu. Infine i nazionalisti predicavano un radicale ritorno al passato ed, in genere, erano schierati su posizioni antimancesi, cioè individuando il male nell’origine mancese della dinastia regnate. 
Protagonista più importante della corrente dei modernisti dei testi moderni fu Kang Youwei, che sotto il regno del giovane imperatore Guangxu (1875-1908), riuscì ad impossessarsi del potere nel 1898 e a promuovere, assieme ad altri esponenti modernisti, una linea politica mirante ad imitare il modello giapponese di sviluppo e modernizzazione. Tuttavia i modernisti non disponevano ancora di un peso abbastanza forte nel paese, e il partito conservatore (con l’appoggio dell’imperatrice vedova Cixi), riuscì a stroncare sul nascere il loro esperimento (che era durato solo 100 giorni).
Vari furono nel complesso le posizioni che fiorirono in questo periodo in merito alla questione della modernizzazione e del confronto con gli europei e con i giapponesi (ammirati ed odiati al contempo); per una trattazione più puntuale si rimanda al libro, pagina 555. Qui basterà dire che la Cina fu da una parte spinta alla modernizzazione e dall’altra indotta ad una sdegnosa chiusura verso l’esterno, nel tentativo (vano) di salvare la conclamata superiorità cinese rispetto al resto del mondo.

Tratto da STORIA DELLA CINA di Lorenzo Possamai
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