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Il classicismo e la storia dell'arte di Winckelmann


Lo spirito di ricerca del Seicento, a discapito di tutti i vari Rinascimenti, affonda le sue radici nell'arte antica. Dopo la Roma classica spunta la Roma sotterranea degli antichi Cristiani, la Roma delle catacombe; dopo la Roma catacombale, ecco quella dei sarcofagi e dei mosaici. L'Italia barocca si tiene stretto il suo primato di terra classica; tutte le nazioni europee (Italia esclusa) avevano un loro Medioevo, ma nessuna tranne l'Italia aveva una vera classicità, e sarà questa classicità che gli italiani del Seicento esporteranno in giro per l'Europa.In Francia e in Inghilterra inizia ad occupare un ruolo di preminenza l'arte medievale. L'Italia, cui manca un Medio Evo nel vero senso della parola, dovrebbe puntare la sua attenzione sui Pisani, su Giotto e i grandi architetti del Duecento, ma non lo fa. Nel Seicento la storiografia artistica non ha interesse per i “primitivi”, che saranno riconsegnati ai riflettori solo nel Settecento; all'Italia barocca interessa ciò che era contemporaneo, e secondariamente ciò che veniva immediatamente prima, con i classici Raffaello, Tiziano e Correggio come punti terminali.Il grande avvenimento del classicismo è naturalmente la Storia dell'arte di Winckelmann, che non può nascondere la sua connessione col terreno romano da cui è germogliata. La tesi dei Carracci secondo la quale la sola vera arte dell'antichità è quella greca, in Winckelmann diventa principio motorio, frutto però più di pura intuizione che di conoscenza diretta dei monumenti, allora pressocché nulla. L'arte romana, una volta ammirata, diventa da adesso la Cenerentola della storia dell'arte, almeno fino al Wickoff e al Riegl.Winckelmann, come Bellori, considera Raffaello il vero eroe del grande stile, colui entro il quale è rinata tutta l'antichità, e quando vuole dare vita alla forma greca, usa proprio i disegni di Raffello. Concorda ancora sull'inferiorità della scultura moderna rispetto alla pittura, in particolar modo a quella bolognese. L'opera del Bernini è quanto di più lontano ci sia dal suo ideale di scultura antica, fedele alla semplicità e alla tranquilla grandezza; un ideale, del resto, dedotto quasi letteralmente dalla teoria classicistica del Seicento.Winckelmann è diventato il padre della storia dell'arte nel significato moderno che poi ha avuto. Incarna l'interesse immediato per il monumento stesso, la sua interpretazione non solo dal lato del contenuto ma anche e soprattutto dal lato formale e stilistico, lo sforzo di imparare e intendere il linguaggio dell'opera d'arte, di penetrare il suo presunto organismo.Va ripetuto sempre che Winckelmann è fortemente debitore della storiografia italiana anteriore a lui, dal Vasari al Bellori. Winckelmann riprende la grande costruzione storica che già avevano usato Vasari e Bellori e accetta l'opinione che l'evoluzione moderna sia l'immagine riflessa di quella antica. L'arte goffa e infantile dell'Egitto e della Grecia del primo periodo sta al Medioevo e alla sua gofferia; lo stile severo sotto Pericle sta al Quattrocento di Leone X; ancora di nuovo la decadenza: da una parte il periodo ellenistico e l'arte romana, dall'altra Caravaggio. Poi la rinascita coi Bolognesi (Maratta).La grandezza del Winckelmann sta nell'avere contrapposto alla storia degli artisti, predominante fino ad allora in Italia, la storia dell'arte, cioè la storia delle vicende successive delle sue forme, delle opere insomma. Winckelmann non vuole fondare la storia dell'arte antica sulle notizie letterarie ma sulle concrete testimonianze rimastene; una via che, sia pur iniziata con mezzi imperfetti, rappresenta un grande, grandissimo merito.Il paradosso sta nel fatto che questo grande storico dell'arte, che noi consideriamo come moderno fondatore della disciplina, era e si considerava un teorico. “Trattato” chiama la sua opera, perchè scaturita dallo spirito della teoria italiana del classicismo. Si professava chiaramente nemico della storia, come pura conoscenza del fatto; a lui importava la sostanza dell'arte, il raggiungimento di un ideale cui la Grecia si avvicinò quanto più possibile. Quella di Winckelmann, a chiamarla come Herder, è una metafisica storica del bello.Justi, infine, ha spiegato come Winckelmann in fondo considerasse l'arte nel suo significato antico, come forma viva in continuo sviluppo. Era un concetto, in fondo, che lo studioso aveva ereditato dal neoplatonismo. Il bello, così considerato, non può essere che uno e immutabile e quindi, in sostanza, eterno. Ogni evoluzione è ascensione o discensione, e tutti i diversi stili non sono varianti di uguale valore ma gradini che nella lotta con la materia conducono al vertice di quella idea. Winckelmann stesso chiarisce la sua posizione dicendo che egli traterà degli stili di diversi popoli, tempi e (ma solo in ultimo!) artisti. Lungi dal cercare in Winckelmann una storia degli artisti.Personaggio contemporaneo del Winckelmann è Luigi Lanzi, che nella sua Storia pittorica traccia un percorso affine ma diverso da quello del Winckelmann. Di fronte all'astratto concettuale platonico della teoria del tedesco, egli contrappone la preponderanza dell'elemento concreto ed individuale. Ciò che più importa al Lanzi è la creazione individuale espressa negli artisti maggiori e nelle scuole che da loro derivano; egli comprendeva come una disposizione cronologica generale avrebbe distrutto questo nesso. La storia dell'arte del primo '900 ha spinto alle estreme conseguenze il concetto di Winckelmann, facendo passare in secondo piano l'individuo creatore rispetto alle grandi successioni evolutive delle forme, alla storia delle forme, secondo la formula del massimo esponente della storia dell'arte dell'epoca primo novecentesca, Wolfflin. Ma così si ricade nell'errore che Julius Lange rimproverava alla filosofia della storia di Taine: si vede l'alto bosco ma non gli alberi.

Tratto da STORIA DELLA CRITICA D'ARTE di Gherardo Fabretti
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