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Azione e società in Nietzsche



Anche l'“io penso” di Cartesio sembra essere un certezza ma è un’illusione: non è possibile che sia io a pensare che debba esistere qualcosa che pensi e che pensare sia l’effetto di un essere concepito come pensiero. Per sostenere ciò dovrei già sapere che cosa significa pensare. Tra queste condizioni illusorie rientra anche l’errore fondamentale di ritenere che esista una libertà del volere: da ciò scaturisce la credenza nell’esistenza di azioni morali di cui ciascuno sarebbe responsabile. L’azione sarebbe allora strettamente legata alla conoscenza, ma secondo Nietzsche ciò è continuamente smentito dai fatti. Infatti nell’azione entrano in gioco tanti fattori che non sono riducibili alla sola conoscenza, che spesso sfuggono a chi la compie. Questo vuol dire che la causa delle azioni non è da rintracciarsi nella libera volontà del soggetto che le compie ma piuttosto all’interno di quello spirito di conservazione che spinge a procurare piaceri e a evitare dolori. In modo allora è possibile dare un giudizio di valore a proposito della moralità delle azioni? Cioè quando un’azione si può definire moralmente corretta oppure no? La concezione sbagliata che ci porta a giudicare le azioni come moralmente cattive parte sempre da quell’assunto falso che vuole che le nostre azioni siano spinte dalla libertà e che un uomo che infligge del male ad un altro uomo lo fa perché lo vuole liberamente: è questa concezione che porta con sé anche lo spirito di vendetta da parte di chi subisce un torto. Questo modo di vedere le cose dimostra come l’azione è giudicata buona o cattiva in base all’effetto che essa ha non sull’agente, ma su chi subisce l’azione altrui: ciò determina l’acquisizione di una posizione di primato degli altri, ossia della società, sul singolo. Ciò vuol dire che la società per imporsi ed imporre una morale che valga per tutti ha dovuto negare il piacere del singolo in favore di quello comunitario.

Tratto da STORIA DELLA FILOSOFIA CONTEMPORANEA di Carlo Cilia
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