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Andrea Zanzotto – Così siamo


Pur appartenendo alla prima raccolta intensamente sperimentale e metapoetica di Zanzotto (1962) questa lirica non condivide il carattere dominante nelle sue compagne, ma in un certo senso continua i toni dei libri precedenti, già nella metrica; due soli endecasillabi con uno però in chiusa vari novenari di cui uno dei due ad anfibrachi in apertura, ottonari per lo più in serie (10 – 14), vari settenari che alla fine si dispongono anch'essi in serie (16 – 20), due quinari; quanto alle rime troviamo solo la rima al mezzo di romorio con io e qualche assonanza e consonanza sulla cui intenzionalità non si giurerebbe.
Da un lato il testo è dominato dalle ripetizioni, anche in forma di rima iniziale; dall'altro si svolge secondo una perentorietà che come non tollera additivi così si serve di un linguaggio semplice e spoglio che non abbisogna di alcuna nota.
Il tema è paradossale: il morto, che è il padre del poeta, ed è importante saperlo, è vicino a chi scrive tanto più quanto più è irrevocabilmente assente, e il suo nulla è fratello del nulla in cui crede chi scrive; il quale pensa a lui Vitalmente 8, senza compiacimenti mortuari. È notevole che questa laicità leopardiana sia espressa con un linguaggio spesso religioso, o se si preferisce della teologia negativa, che si direbbe sempre posto per essere negato: cruna, E così sia, Così siamo, credo, che però è il credere nel proprio nulla. Il tema della vicinanza di vivi e morti, è qui detto con accenti paradossali e definitivi.
La lirica è dominata da una parte dalle figure di negazione, dall'altra da quelle di ripetizione, che però, a differenza di quanto avviene altrove in Zanzotto, non esprimono il balbettamento, ma l'insistenza della convinzione. La si può dividere in tre parti.
Versi 1 – 7. Delinea una situazione esterna, diciamo convenzionale, segnata dalla ripetizione della battuta banale Anch'io l'ho conosciuto e svolta secondo modi prosastici, volutamente un po' inceppati, come indica subito il doppio iperbato dei vv. 1 – 2; ma qui stesso affiora qualcosa che prelude all'intensa meditazione del dopo: il degradato paesaggio cittadino diventa stupendo nella notte e nel silenzio favorevoli all'agostiniano tornare in sé stessi.
Versi 8 -16. Qui troviamo una sequela di negazioni in forma di climax: non, né più volte, neppure, negare ripetuto, mai, che investe per maggior nichilismo gli opposti (soggetto – oggetto, lingua usuale – gergo, quiete – movimento) cioè il tutto, e si materializza nella sottile espansione del significante – significato di neppure il né che negava. Ma per negazione della negazione questo nichilismo è nello stesso tempo una manifestazione di forza, vitalità.
Versi 17 – 22. Portato dall'energica avversativa ma l'io di chi parla è tanto più forte non solo perché in fine di verso e di innesco di enjambement, ma perché si oppone agli io delle voci che risuonavano nella prima parte, e la presenza del padre a lui sta nel suo credere nel proprio nulla con la stessa forza con cui crede al nulla che è divenuto il morto. Allora il non non veicola più un'assenza ma una presenza (20) e l'ultima replicazione si rovescia da negativa in positiva. In questo finale dominano significativamente le figure di somiglianza, dal doppio poliptoto su perdere alla sinonimia dell'ultimo verso, il tutto attraversato sempre dall'avverbio più, quattro volte, mentre i due versi finali sono similari per opposizione.

Tratto da STORIA DELLA LINGUA ITALIANA di Gherardo Fabretti
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