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Le opere di Stravinskij


Nella Sagra della Primavera è chiaro quali siano gli elementi innovatori del compositore: la presenza di un melos slavo radicato in una sostanza popolare russa; l’originale concezione timbrica, mirante a secche e asciutte profilature o a duri blocchi sonori pietrificati; la frequente politonalità; l’uso molto libero delle dissonanze; un’invenzione ritmica senza precedenti, così complessa in questo componimento da interessare anche le recenti avanguardie.
La violenza di questa partitura, ispirata ad una visione mitica di una Russia arcaica, è legata anche ad una sorta di impassibile oggettività con cui viene guardato lo sprigionarsi di barbariche forze primordiali. L’ineluttabilità del sacrificio, nella Sagra, come l’amara sorte della marionetta in Petruska, rimanda coerentemente agli sviluppi successivi del pessimismo stravinskiano, che trova una ulteriore radicale espressione nella Storia del soldato (Losanna, 1918). In questo componimento ravvisiamo l’inizio di una netta svolta nello stile di Stravinskij che abbandona soggetti e influenze musicali “russe”, semplificando inoltre la scrittura ritmica e iniziando a farsi influenzare, anche se solo marginalmente, da un interesse per nuovi fenomeni musicali come il jazz e la musica di consumo. L’opera si caratterizza anche per la riduzione dell’orchestra ai minimi termini, vale a dire con un unico strumento per ogni famiglia, e per l’abolizione del canto, sostituito dalla narrazione e della recitazione. È una storia tratta da un racconto di Afanasjev, quella del soldato insidiato dal diavolo che vuole carpirgli l’anima. Tra le tante interpretazioni simboliche si è preferito prendere quella della parabola dell’emigrato che perde la patria tutte le volte che pensa di averla trovata; un motivo conduttore dell’esistenza di Stravinskij.
Abbiamo poi la svolta neoclassica, il cui clamoroso inizio si fa risalire al balletto “Pulcinella” (Parigi, 1920) su musiche (ritenute) di Giambattista Pergolesi. In effetti parlare di “neoclassico” è improprio: il termine, infatti, pone in risalto solo uno dei suoi tratti salienti, vale a dire il recupero della tradizione del passato, finendo per accodare Stravinskij a tutti i compositori dell’epoca nostalgici del Settecento. Il suo moto conduttore è invece un altro. Riprendendo pagine, temi o atteggiamenti stilistici del passato, dal Barocco a Caikovskij, Stravinskij abbandona le punte e le tensioni che avevano spaventato il pubblico della Sagra. Ma il ritorno all’ordine non è affatto un recupero vitalistico e fiducioso della tradizione, bensì un ritorno amaro e di tagliente ironia, che gioca su stilemi linguistici rinsecchiti, svuotati di senso dall’interno, collocati in un contesto deliberatamente improprio. Il suo è un ritorno all’ordine morto e pietrificato, il lucido e consapevole frutto di una profonda sfiducia nella storia, di un radicale pessimismo che rifiuta la possibilità di costruire un linguaggio “nuovo” ed esorcizza in un implacabile oggettivismo una catastrofica condizione esistenziale.
Di questo periodo ricordiamo l’Oedipus rex (1927, su testo di Cocteau) e l’opera La carriera di un libertino (Venezia, 1951) dove è più esplicito il tragico fatalismo stravinskiano. Il periodo neoclassico coincide con quello della conversione religiosa, che aprirà un nuovo importante canale ispirativi della sua arte, inaugurato con un capolavoro assoluto quale La Sinfonia di Salmi del 1930. Per Stravinskij conversione e neoclassicismo furono gli scudi che lo protessero dai nefasti influssi esterni, consentendogli di forgiare una estetica compiuta e originalissima.
L’evoluzione del suo stile, dalla incandescenza del periodo russo fino ai raddolcimenti neoclassici, furono erroneamente interpretati o come un tradimento dell’avanguardia, o come un salutare ritorno alla tradizione. Niente di più falso in entrambi i casi: in realtà il compositore mantiene intatte le proprie caratteristiche
L’ultima svolta (apparente) del compositore è stata la graduale assunzione della dodecafonia (a partire dal Settimino, 1952), in realtà considerata come un fatto ormai storicizzato, riducibile allo status di fossile, buono solo per le sue ieratiche e gelide ultime costruzioni musicali.

Tratto da STORIA DELLA MUSICA di Gherardo Fabretti
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