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L’esempio pratico: Ernesto de Martino



De Martino svolge le sue ricerche in un periodo in cui il realismo, nelle sue nuove declinazioni, è imperante e in cui la fotografia ma anche il cinema, riprende, sviluppandoli e adeguandoli alle esigenze dello scontro sociale assai duro in atto nel Paese, assunti di derivazione positivistica, tra i quali quello dell'aderenza veridica, della documentazione esatta, della denuncia sociale, dell'impegno progressista.
L'etnologo è fortemente influenzato dal clima a lui coevo e adopera la fotografia come conferma dei processi socio-culturali che osserva, con un atteggiamento sostanzialmente documentario in cui all'immagine si affida per lo più un compito di sostegno e integrazione di ciò che si pensa su una determinata situazione e della relativa descrizione scritta. Vi sono però alcune novità che si intravedono.
L'atteggiamento metodologico dello studioso è sostenuto innanzittutto da un'intuizione nuova: quella dell'identità possibile tra un modo iconico di dire le cose e un peculiare carattere del mondo popolare indagato, quello dell'illetterarietà. De Martino si avvicina alla fotografia non per un opportuno ammodernamento, da umanista accorto, ma per una necessità di metodo, nello studiare direttamente culture contadine di tradizioni e mentalità orali. Cioè culture in cui il momento della comunicazione visiva aveva il logico sopravvento sulla comunicazione scritta. De Martino, ammette poi la ripetizione artificiale, ai fine della creazione di un documento fotografico o filmico, della situazione reale intorno alla quale sta svolgendo lavoro di indagine. In taluni casi, egli scrive, per comodità d'osservazione è stata, con tutte le cautele del caso, impiegata la tecnica di far ripetere artificialmente in tutto o in parte un comportamento culturale fuori dell'occasione reale nel quale esso entra normalmente in azione, e sono state annotate le differenze tra questo comportamento sperimentale e quello spontaneo. Questo atteggiamento metodologico non del tutto nuovo* ma certo qui sperimentato con matura consapevolezza, è il risultato dell'incrinarsi della fiducia nel documento fotografico, nella sua oggettività, nella sua datità, nella sua verosomiglianza; è segnale di un'apertura verso le ragioni della finzione, verso ordini di significato documentario meno immediati e più complessi. Che De Martino non custodisse un'idea non piattamente positivista riguardo all'immagine è confermato anche dal fatto che la fotografia non appare nella sua opera soltanto come copia fedele di ciò che rappresenta, ma come strumento per una critica della visione. In pratica de Martino pone e intende la fotografia non come traccia  indicale di un reale lontano dagli occhi del lettore, ma modello di un reale possibile, indizio, macchina evocativa, tramite tra progetto e fenomeno. Per l'etnologo la fotografia può contribuire a evidenziare tratto oscuri del conoscibile: evoca modelli, pone in relazione aspetti visibili della realtà con ordini concettuali complessi. L'epoca della fotografia quale prova immediata del reale non può dirsi dunque superata con de Martino ma egli certamente contribuisce a mettere in discussione i quadri concettuali che presiedono all'uso dell'immagine etnografica. La fotografia viene inizialmente assunta nella prassi documentaria per la sua realisticità e poi accantonata, quando è materialmente possibile, in favore di mezzi che sembrano garantire una maggiore aderenza analogica, un più elevato potere probatorio; ai nuovi mezzi infatti poi si ricorre per propiziare una più naturalistica, attendibile, veridica riproduzione della realtà, non per altri vari ed eventuali motivi.

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