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L’etnografia, oggi



L'etnografo di oggi certamente conosce più cose del mondo e al contempo ha cessato di stupirsi nel senso di prestare un'attenzione responsabile all'oggetto della sua visione, un'attenzione assai lontana da ogni estasi e rapimento, ma che propizia attraverso la sorpresa e la folgorazione l'assunzione dell'oggetto stesso nella prospettiva di vita del soggetto riguardante.

Malgrado tali differenze la pratica etnografica in sè comporta a prescindere dagli oggetti concreti su cui si esercita, un grado di estraniazione intrinseca e tendenzialmente radicale; si può fare etnografia di un contesto quotidiano e familiare, com'è noto, al fine di sottoporlo a una serrata critica culturale, ma quest'ultimo si inaugura proprio con una serrata critica visiva, ovvero con un processo di allontanamento e temporaneo disconoscimento dell'oggetto.

Nella condizione di estraniazione ciò che appare allo sguardo può divenire segno, trasformarsi in dato etnografico, grazie a codici di riferimento che, in primo luogo non sono visivi e in secondo luogo non provengono dalla realtà osservata ma da un insieme vario ed eterogeneo di conoscenze preesistenti.
La percezione di un elemento rituale ignoto ad esempio non è agevolmente riconosciuta ovvero non è assunta a segno di se medesimo. L'osservatore deve infatti innanzitutto azzerare professionalmente i suoi orizzonti di riferimento e riconoscimento. Attraverso lo sguardo si sa, così, che si sta tagliando un “Pezzo” ma non si sa vedere cosa realmente accade. Le immagini che l'occhio raccoglie significano all'interno di un orizzonte di funzionalità di tipo percettivo (raccontano un taglio) che è ancora inadeguato a portare info culturali, a trasformare lo sguardo in visione.

Si può sostenere ancora, alternativamente, lo sguardo con informazioni, desunte da libri o altre fonti, che si riferiscono al tema, procedendo così a un riconoscimento improprio, di tipo deduttivo, del rituale stesso. Entrambi questi procedimenti, in particolare il 2°, sacrificano lo sguardo, asservendolo a mezzi conoscitivi diversi, dando origine a una forma di conoscenza pregiudiziale che è simile a quella dell'etnografia pre-scientifica. Illustra efficacemente tale processo uno studioso, Claude Melliassuox, egli ricorda come certi tratti originati dalla diretta osservazione dei fenomeni, derivino “non da un difetto della percezione oculare, ma da un pregiudizio e da un vizio di ragionamento”, e si realizzino tramite un procedimento di associazione permutante del pensiero che egli definisce ASPER. Con ciò il soggetto vede non quello che la realtà sensibile offre allo sguardo ma quello che egli sa, o può, o vuole vedere. L'etnologo in effetti, ricorda Kilani, non rivolge mai uno sguardo completamente nuovo alle realtà che gli si presentano, poiché la sua visione del nuovo è sempre guidata da un modello preesistente e si realizza nella reiterazione di esperienze precedenti.

L'etnografia e l'antropologia dunque a ben riflettere non sono state sin qui così visualiste come comunemente si ritiene. Se è vero che si sono servite della vista e dell'osservazione diretta, che hanno costruito una forma di conoscenza condizionata da un campo gestaltico, che in nome della vista e dell'osservazione hanno ritenuto, comunque, di dover affermare la loro credibilità scientifica, non è vero che le conoscenze che hanno acquisito siano state costruite in modo determinante tramite la vista. Lo sguardo, proprio per la sua ontologica difficoltà a misurarsi con il contesto estraneo, ha portato all'interno della pratica etnografica materiali semilavorati che sono stati poi manipolati e rifiniti tramite e attraverso strumenti percettivo-cognitivi diversi. L'osservazione è stata in realtà un TOPOS ideologico che indicava in modo riassuntivo processi disparati e discontinui che non transitano sempre soltanto per l'occhio. Nell'ambito delle correnti riflessive si è avvertito il bisogno di messa in discussione del paradigma visualista. 

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