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La confessione romantica

In Agostino, la condanna del peccato è netta. Diversa è la confessione moderna: essa si dibatte tra mille contraddizioni, tra autoaccusa e autoapologia, disprezzo di sè e senso di superiorità. In età romantica, Dio talora è assente dal testo, e può accadere che alla sua lode si sostituisca un encomio blasfemo. Eliminato o banalizzato il divino, ad ascoltare e giudicare restano gli uomini.

La parola (la scrittura) come terapia, dunque: non c'è ancora la psicanalisi, ma si prepara il terreno. Del resto, il male di cui ora si discute, nonostante certe consonanze (la malattia morale, la voluttà) è diverso da quello di Agostino: la dispersione del soggetto non è più in una retta via, bensÏ su uno sfondo concreto, anche come contesto politico-sociale.

Chateaubriand, per bocca di Renè, osserva il cambiamento sbalorditivo di fine Settecento. L'Amaury di Sainte-Beuve confida ad Amelie il suo malessere facendone il malessere di un'intera generazione, quella venuta su in età napoleonica. Divenuta mal du siecle, la dissipazione individuale è sfuggente: rispetto al Werther, fratello maggiore, il nuovo eroe romantico è più sofferente, nel dubbio che la passione non sia delle anime grandi, ma un segno di degradazione morale.

Altri tentano di indirizzare la confessione verso una svolta di vita. De Quincey, dopo aver indugiato sui piaceri dell'oppio, parla delle pene della droga assumendo la visuale di chi vi è uscito: ma poi si capisce che le cose non stanno cosÏ, che si è trattato di un tentativo di breve durata.

Tratto da STUDI SULLA CONFESSIONE LETTERARIA di Domenico Valenza
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