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Definizione di ermeneutica


L’ermeneutica è l’arte di interpretare i testi. Originariamente era l’antica disciplina ausiliaria della teologia e venne applicata pressoché esclusivamente ai testi sacri fino al XIX secolo, quando, sulla scorta delle idee dei teologi protestanti e grazie allo sviluppo della consapevolezza storica europea, divenne la scienza dell’interpretazione di tutti i testi, il fondamento stesso della filologia e degli studi letterari.
Friedrich Schleiermacher (1768 – 1834) gettò le basi dell’ermeneutica filologica alla fine del XVIII secolo, sostenendo che la tradizione artistica e letteraria non aveva più un rapporto di immediatezza con il proprio mondo, dunque era diventata estranea al suo senso originario. Attribuisce così all’ermeneutica il compito di ricostruire il primo significato di un’opera, dato che la letteratura è alienata dal suo mondo originario: “l’opera d’arte che sia strappata dal suo contesto originario, se tale contesto non è storicamente conservato, perde di significato”. Secondo l’ermeneutica di Schleiermacher il vero significato di un’opera è quello che aveva all’origine; comprenderla significa sottrarla agli anacronismi allegorici.
Il pensiero di Schleiermacher rappresenta la posizione filologica (dunque antiteorica) più rigida possibile, quella che identifica rigorosamente il significato di un’opera con le condizioni cui ha risposto quando è venuta alla luce, e la sua comprensione con la ricostruzione della sua originaria produzione.
Secondo un filologo un testo non può voler dire in un secondo momento quello che non poteva voler dire originariamente. Il primo canone fissato da Schleiermacher nel 1819 è chiaro: tutto quello, che in un discorso dato, richiede di essere determinato in modo più preciso, non può esserlo che a partire dall’area linguistica comune all’autore e al suo pubblico originario.
Dovremo dunque prendere gli esegeti medievali per imbecilli? No, certamente. Essi sapevano benissimo che Omero, Virgilio o Ovidio non potevano voler suggerire nelle loro opere sensi cristiani. Gli esegeti però ipotizzavano una intenzione superiore a quella dell’autore individuale, ed in ogni caso non presupponevano che all’interno di un testo tutto si dovesse necessariamente spiegare con il contesto storico comune all’autore ed ai suoi primi lettori.
Il principio allegorico è più forte del principio filologico, poiché quest’ultimo privilegia in modo assoluto il contesto originario, arrivando a negare che un testo significhi ciò che vi si è letto, vale a dire ciò che ha significato nel corso della storia. Paradossalmente, in nome della storia, la filologia nega la storia stessa.

Tratto da TEORIA DELLA LETTERATURA di Gherardo Fabretti
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