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Le teorie di Barthes sulla morte dell'autore


L’intenzione e l’autore stesso, a partire dal XIX secolo, sono stati il teatro privilegiato del conflitto tra gli antichi (la storia letteraria) e i moderni (la nuova critica) negli anni Sessanta. Nel 1969 Foucault teneva una importante conferenza intitolata Che cos’è un autore? mentre solo un anno prima Barthes aveva pubblicato un articolo il cui titolo ad effetto era La morte dell’autore, diventato agli occhi dei suoi sostenitori come a quelli dei suoi avversari, lo slogan antiumanista della scienza del testo.
Scrive Barthes: l’autore è un personaggio moderno, prodotto dalla nostra società quando, alla fine del Medioevo,scopre, grazie all’empirismo inglese, al razionalismo francese e alla fede individuale della Riforma Protestante il prestigio del singolo, o per dirla più nobilmente, della persona umana. Era questo il punto da cui partiva la nuova critica! L’autore non è altro che l’incarnazione del borghese moderno, l’incarnazione dell’ideologia capitalista. Intorno a lui, dice Barthes, si organizzano i manuali di storia letteraria, e tutto l’insegnamento della letteratura, come se l’opera fosse una confessione, come se non potesse rappresentare altro che una confidenza di colui che l’ha prodotta.
Ad esso, a questo autore principio produttivo ed esplicativo della letteratura, Barthes sostituisce il linguaggio, impersonale ed anonimo, rivendicato via via come materia esclusiva da Mallarmè, Valery o Proust, poi dal surrealismo e infine dalla linguistica, per la quale l’autore non è mai nient’altro che colui che scrive, proprio come io non è altri che chi dice io.
Soffermiamoci un attimo su questa identità tra autore e pronome di prima persona. “La natura dei pronomi” è un libro di Emile Benveniste del 1966 che ebbe grande influenza sulla nuova critica. L’autore cede la ribalta alla scrittura, al testo, oppure allo scrittore (che non coincide con l’autore) che non è mai altro che un soggetto nel senso grammaticale o linguistico; un essere di carta e non una persona in senso psicologico. Lo scrittore è il soggetto dell’enunciato, che non si produce se non nel momento stesso dell’enunciazione.
Da qui consegue che la scrittura non può rappresentare o dipingere nulla di preliminare rispetto al proprio enunciato, e che non ha più una origine, di quanto non ne abbia il linguaggio. Il testo, privo di origine, non è altro che un tessuto di citazioni:l’intertestualità nasce infatti con la morte dell’autore.
Scompare anche l’analisi assieme all’autore, perché non esiste più un senso esclusivo, originale, alla base di un testo. Infine, ultimo anello ricavato dalla tesi della morte dell’autore, è che il lettore, e non l’autore, è il luogo in cui si produce l’unità del testo; la destinazione, non l’origine. Ma, si badi bene, questo lettore non è più personale di quanto non lo sia l’autore. Questo lettore è quel qualcuno che tiene unite in uno stesso campo tutte le tracce di cui uno scritto è costituito.
Le teorie di Barthes sulla morte dell’autore coincidono con un periodo, gli anni Sessanta, che coincide con la ribellione antiautoritaria della primavera del sessantotto. Per, e prima, di giustiziare l’autore è stato necessario identificarlo con l’individuo borghese, con la persona psicologica, riducendo la questione dell’autore a quella dell’analisi testuale tramite la biografia e la vita; è una limitazione che la storia letteraria sembra suggerire, ma non copre certo tutto il problema dell’intenzione, e certamente non lo risolve.

Tratto da TEORIA DELLA LETTERATURA di Gherardo Fabretti
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