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Il declino della potenza ateniese

Causa principale di disfatta, in buona parte, fu il canto del peana (= canto di guerra dei greci): suonando quasi identico da un lato e dall’altro seminava il dubbio ⇒ la sconfitta è causata da un canto di guerra che, essendo molto simile per entrambi gli schieramenti, ha creato caos e confusione, determinando di fatto la sconfitta ateniese ⇒ con i nemici alle costole, molti si precipitavano per le scarpate, sfracellandosi… e all’alba alla cavalleria siracusana bastò un carosello e una carica per distruggerli. 
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Coerentemente con quanto pianificato in precedenza, Demostene vorrebbe ritirarsi, data l’urgenza di sgomberare da quei luoghi (cap.47). 
Anche Nicia comprendeva che lo stato degli Ateniesi in Sicilia era più che critico, ed è dunque favorevole alla ritirata, ma non se la sentiva di rivelare apertamente la fragilità delle loro posizioni, perché questo avrebbe potuto scatenare un potente attacco da parte dei Siracusani e dei loro alleati. 
Inoltre, dichiara di essere in possesso di informazioni, in base alle quali in seno a Siracusa operava un certo partito impaziente di aprir le braccia agli Ateniesi e di consegnar loro a città (cap.48). È naturale chiedersi quanto queste informazioni siano vere ed accurate o se, come qualcuno ha sostenuto, siano state date ad arte dalla parte nemica per indurre gli Ateniesi a rimanere, ed essere completamente distrutti. 
Ma c’è anche un altro motivo, che frena Nicia dal ritirare immediatamente le truppe: Nicia è ben consapevole di come gli Ateniesi interpreterebbero un ritiro “a mani vuote”. 
NB: nel Libro IV, cap.65, gli Ateniesi condannarono quegli strateghi che erano tornati a mani vuote dalla Sicilia, con l’accusa di essere stati corrotti. 
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cap.48 
Quei tanti che ora strepitavano d’essere cinti dovunque da minacce, appena in patria avrebbero levato ben diversi strepiti: strateghi venduti, vi siete ben lasciati convincere dai denari a disertare! ⇒ Conoscendo personalmente il carattere ateniese, Nicia decise, anziché farsi uccidere da una sentenza vergognosa e iniqua del tribunale ateniese, di affrontare contro il nemico, se necessario, tra i pericoli della lotta il medesimo destino di morte. 
cap.49 
Nicia opponeva il veto: e di qui insorsero ripensamenti e lentezze… in questo stato d’animo gli Ateniesi differirono ogni mossa e si tennero in quella contrada. 

Quando finalmente Nicia e gli altri strateghi decidono di partire, ebbe luogo un’eclisse di luna (cap.50): la truppa ateniese… pretese che gli strateghi differissero ⇒ che fosse attuato il rito di attenuazione di quell’evento, considerato un presagio nefasto. E Nicia (proclive non poco, forse troppo, alle divinazioni…) rifiutò che si discutesse oltre sui dettagli della partenza, in attesa che spirassero tre volte nove giorni, come prescritto dagli indovini, comportamento che decisamente non ci si aspetta da un capo. 
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Rinviata ancora una volta la partenza, gli Ateniesi si scontrano nuovamente con i Siracusani e fu netta e fulgida, in quest’ultimo scontro, la vittoria navale siracusana (cap.55). 
Come sempre, questo evento ebbe immediate ripercussioni a livello psicologico, oltre che strategico-militare. Infatti, nella parte ateniese, al disappunto fierissimo s’aggiungeva, anche più vivo, il rimorso d’essersi arrischiati in una simile impresa (cap.55). Per contro, i Siracusani… meditavano di bloccarne l’accesso (al porto), affinché gli Ateniesi, anche volendo, non fossero più in grado di uscirne senza suscitare l’allarme ⇒ ormai non badavano più a procurarsi soltanto la propria salvezza: si cercava in tutti i modi di precludere al nemico ogni scampo (cap.56) ⇒ Siracusa, dopo essere stata aggredita, pensa in primo luogo alla propria salvezza e, una volta che questo obiettivo è assicurato, passa a negare la stessa salvezza al nemico ⇒ non si accontentano più di difendersi, ma vogliono distruggere gli Ateniesi, il che sarebbe stato per Siracusa motivo di prestigio e di vanto senza precedenti (cap.56, per i Siracusani, se arrivavano a trionfare con la marina e l’armata terrestre sugli Ateniesi e i loro alleati, sarebbe riuscito splendido l’esito del duello agli occhi degli altri Greci). E del resto, è quanto aveva immaginato Ermocrate: come gli Ateniesi erano diventati potenti perché avevano sconfitto in modo del tutto sorprendente i Persiani, lo stesso sarebbe potuto succedere per Siracusa (Libro VI, cap.33) ⇒ una volta garantita la propria sicurezza, si può pensare alla gloria: il merito sarebbe toccato a Siracusa, con la corona di un’ammirazione perenne, una gloria non fine a se stessa, ma che si basa su rapporti di forza alla pari con i Corinzi e gli Spartani: l’idea di riuscire a distruggere gli Ateniesi implica che Siracusa si mette a pari livello con le 2 più grandi potenze dopo Atene (cap.56, non isolati, ma alla testa della propria lega, reggendo con Corinzi e Spartani le redini della guerra, schierando la propria città ai primi posti di combattimento e imprimendo al progresso della propria marina una spinta poderosa). 
Segue il disperato tentativo ateniese di forzare il blocco navale (capp. 60 e seguenti) e, nel discorso di Nicia per risollevare il morale delle truppe, vengono toccati temi familiari: Nicia infatti ricorda che nella guerra agisce l’imponderabile (cap.61): prima di lui, già i Meli avevano utilizzato questo argomento come motivo di perseveranza dell’azione (Libro V, cap.102, talvolta le sorti della guerra si orientano verso equilibri che le rispettive potenze in campo non lascerebbero mai supporre), argomenti esposti da chi si trova in una posizione nettamente inferiore, senza via d’uscita, tanto che si è arrivati a definirli gli “argomenti del debole”, che non ha altre risorse a cui attingere. E proprio come i Meli, anche Nicia si appellerà in seguito alle divinità. 
Gilippo e gli strateghi a lui affiancati avanza argomenti molti più concreti di quelli dei Siracusani, che puntano alla gloria della loro città: Atene va distrutta per evitare che dia ancora fastidio ⇒ è più che doveroso, più che legittimo, contro forze nemiche, l’atto di chi s’arroga a suo diritto di spegnere nel sangue dell’invasore l’intima febbre di vendetta… che siano i nostri nemici più fieri, a voi tutti è noto. Son piombati sulla nostra terra per soggiogarci ⇒ bisogna infliggere una punizione memorabile agli aggressori (cap.68). 
Nicia, invece, seguitava con gli argomenti cui ogni uomo, davanti a simili strettezze, usa ricorrere senza preoccuparsi di figurare come quello che fa continuamente l’eco a motivi già consunti dalla tradizione; e vi aggiungeva i triti avvisi che in circostanze di questo genere tornano, ritornello antico, sulle famiglie, sui figli, sugli dei patrii: sorgono spontanei alle labbra, e si ritengono utili nei momenti di sconforto (cap.69). 
È da sottolineare a riguardo l’atteggiamento di Tucidide, che descrive Nicia con parole di distacco, parole che Tucidide riserva a chi ormai non risponde più ai principi di razionalità. 
Segue la sconfitta finale di Atene sul mare, con i conseguenti rilievi psicologici, tanto che il terrore dilagante in quegli attimi non ebbe paragone in nessun altro fatto di guerra. La sventura degli Ateniesi poteva trovare un raffronto in quella che essi stessi avevano inflitto in Pilo agli Spartani (cap.71) ⇒ gli Ateniesi decidono di ritirarsi via terra, divisi in 2 gruppi, guidati rispettivamente da Nicia e Demostene, dato che i marinai si rifiutarono di prender posto (cap.72) ⇒ ancora una volta Nicia non guida, ma si fa guidare, non è un capo, perché nei momenti decisivi non riesce ad infondere all’azione quella determinazione che sarebbe necessaria. 
L’irrazionalità della massa è presente anche nelle schiere siracusane, dove l’allegria irrefrenabile della vittoria aveva suggerito ai più, cogliendo anche l’occasione di quella giornata solenne, di bere in abbondanza (cap.73) ⇒ per evitare di farsi sfuggire la vittoria ormai certa, Ermocrate ideò il seguente artificio. Quando calarono le prime ombre della sera, Ermocrate mandò al campo ateniese alcuni dei suoi uomini fidati con una scorta di cavalieri. Costoro, spingendosi a distanza utile per farsi udire, chiamarono a colloquio alcuni del campo, spacciandosi per partigiani degli Ateniesi. Poi li invitarono a scongiurare Nicia di non rimuovere l’armata quella notte, poiché i Siracusani presidiavano le vie d’uscita (cap.73) ⇒ gli strateghi (ateniesi) decisero di soprassedere per quella notte, non sospettando il tranello (cap.74). 
Tucidide descrive in modo alquanto realistico le sofferenze dell’esercito ateniese in ritirata, una situazione estrema, paragonabile per certi aspetti alla peste di Atene e alla guerra civile a Corcira: lo spettacolo si offriva tristissimo ai partenti: e dagli occhi la pena calava a ghiacciare il cuore. I cadaveri s’ammontavano scoperti. E, ancora una volta, alle difficoltà fisiche si affiancavano le difficoltà psicologiche, tanto che un sentimento acuto di vergogna e di disgusto cocente per se stessi li umiliava; il più bruciante era il ricordo trionfale della partenza, dell’orgogliosa fiducia che l’aveva cinta e la misera di questo declino, così vile, così abietto. Mai altro esercito greco conobbe un simile mutamento di sorti (cap.75). 
Segue l’ultimo appello di Nicia alle truppe nel quale, come già anticipato, riprende gli “argomenti del debole”, come avevano fatto i Meli di fronte ad Atene: (cap.77) egli spera in un ribaltamento della sorte (prima o poi, il negativo corso della sorte dovrà pure placarsi. La fortuna ha già troppo sorriso rivolta al nemico) e nell’aiuto degli dei (se la nostra spedizione ha sollevato l’invidia di un dio, abbiamo ormai scontato a sufficienza questa colpa… quindi anche noi possiamo fin d’ora sperare dalla divinità un trattamento più mite). 

Ma come questi 2 elementi non hanno aiutato in precedenza i Meli, così anche qui non giocano a favore degli Ateniesi. 
Infatti, negli ultimi capitoli del Libro VII, Atene si arrende (cap.85, Nicia si arrese a Gilippo). 
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Nicia e Demostene, contro il parere di Gilippo, furono suppliziati (cap.86). 
In queste ultime pagine si nota come l’alleato minore, Siracusa, in una questione del tutto secondaria (il trattamento da riservare agli strateghi nemici) riesce a sopraffare l’alleato maggiore, Sparta: Gilippo voleva portarli entrambi vivi a Sparta, mentre i Siracusani e altri alleati vogliono ucciderli, soprattutto Nicia, in particolare (cap.86): 
− i Corinzi, nella paura che, ricco com’era, corrompesse con l’oro qualche autorità; 
− un gruppo di Siracusani, preoccupati per essersi compromessi in intese segrete con lui, temevano che sottoposto alla tortura parlasse rovinando loro, con la sua denuncia. 

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Ancora una volta, Sparta agisce in modo da compiacere i suoi alleati, così come aveva fatto con i Tebani nell’episodio di Platea. 
Tucidide riporta l’ultimo giudizio su Nicia: 
il più incolpevole tra tutti i Greci, almeno tra quelli del mio tempo, e il meno degno di una così cupa fine, per l’impegno inflessibile riposto nella pratica della virtù, nell’esemplare rispetto della legge (cap.86). 
Infine, Tucidide esprime un giudizio finale sulla spedizione in Sicilia: 
questo riuscì l’evento bellico più denso di conseguenze per i Greci, in tutto l’arco della guerra e, almeno secondo il mio giudizio, il più grandioso in assoluto tra i fatti della storia greca registrati dalla tradizione: (perché fu) quello che garantì il maggior trionfo alla potenza vincitrice e inflisse agli sconfitti la ferita più mortale. Disastrose disfatte, su tutti i fronti; tormenti di ogni sorte, acuiti allo spasimo. 
Fu insomma una distruzione radicale: è proprio questa la parola; e vi scomparve l’esercito (si calcola che Atene abbia perso nella spedizione in Sicilia circa 50.000 uomini), si dissolse la marina, e nulla si riuscì a salvare (cap.87). 

Tratto da TEORIA DELLE RELAZIONI INTERNAZIONALI di Elisa Bertacin
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