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Le alleanze secondo Schroeder

Le conclusioni a cui Schroeder arriva si possono così sintetizzare: 
− Il desiderio di aggregazione delle capacità contro una minaccia esterna non sempre ha giocato un ruolo rilevante nella formazione delle alleanze. A volte, le potenze decidono di entrare in un’alleanza anche se non esiste il desiderio o la necessità di aggregazione di potenza ⇒ in certi casi, la formazione di alleanze serve ad indebolire la posizione militare di uno Stato, piuttosto che a rafforzarla. 
− Alcune alleanze, sebbene dirette tecnicamente contro una minaccia o un nemico particolari, indicati come il casus foederis, formalmente hanno però un obiettivo principale diverso da quello dichiarato = la gestione e il controllo degli affari internazionali. 
− Tutte le alleanze funzionano, in qualche misura, come patti di limitazione (pacta de contrahendo) ⇒ con lo scopo di limitare o controllare le azioni degli stessi alleati. Spesso, infatti, è il desiderio di controllare le politiche degli alleati a spingere alcune potenze a stringere un’alleanza. 
− Sebbene le alleanze vengano spesso usate per isolare e intimidire un alleato, esse sono frequentemente usate anche per raggruppare e conciliare un avversario, allo scopo di gestire il sistema ed evitare un potenziale conflitto. 
− La percezione di una minaccia da parte di uno Stato potrebbe spingere un altro Stato o a formare un’alleanza contro quello Stato (= aggregazione di potenza), o ad allearsi con quello Stato (= gestione della minaccia attraverso un pactum de contrahendo). 

Tradizionalmente, la ricerca di un principio di ordine internazionale ha oscillato tra 2 poli: 
− REALISMO: equilibrio di potenza = la realtà delle relazioni internazionali è inevitabilmente caratterizzata dalla dispersione del potere tra centri decisionali indipendenti, con interessi divergenti e potenzialmente conflittuali ⇒ l’unico modo per raggiungere una certa stabilità è attraverso l’equilibrio. 
− IDEALISMO: integrazione delle nazioni in una comunità internazionale = esistono processi e meccanismi di integrazione internazionale (interdipendenza economica, organizzazioni mondiali, diritto internazionale, movimenti regionali e federali), in grado di soppiantare la conflittualità internazionale. 

Secondo Schroeder, però, nessuna di queste 2 visioni è speranzosa: da un lato, l’equilibrio di potere non sembra essere in grado di creare limiti e cooperazione tra gli Stati; dall’altro lato, però, i movimenti per l’integrazione sembrano non essere in grado di affrontare la dura realtà del conflitto tra le potenze. 
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Meglio una via di mezzo, in grado di vedere le alleanze come relazioni associative-antagonistiche ⇒ in grado di cogliere nello stesso tempo sia gli aspetti conflittuali sia quelli cooperativi di questo fenomeno internazionale. 
Schroeder, inoltre, mostra come, posti di fronte ad una minaccia, gli Stati non fanno sempre ricorso al balancing o al bandwagoning: essi possono anche nascondersi – hiding – sperando che la tempesta passi senza eccessive conseguenze e che altri si prendano la briga di affrontare lo Stato aggressivo; oppure possono “trascendere” – transcending – la minaccia, vale a dire cercare di risolvere i contenziosi per mezzo di procedure istituzionali basate sul consenso o su accordi formali. 
La teoria waltziana non porta dunque a risultati soddisfacenti, perché essa permette di gettare luce solo su un piccolo numero di alleanze (= quelle che sono quasi esclusivamente un riflesso di uno squilibrio di potenza) o su un aspetto della maggior parte delle alleanze (= il loro orientamento “esterno”, contro un nemico). 
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Le variabili indipendenti neorealiste – l’anarchia internazionale e la distribuzione della potenza in senso bipolare o multipolare – non sono di grande aiuto nello studio approfondito di un fenomeno specifico, come le alleanze. 
Malgrado il suo carattere di teoria sistemica, il neorealismo resta quindi tendenzialmente indeterminata. 
Non a caso la maggior parte delle critiche e dei tentativi di rivedere il neorealismo insiste proprio su questo punto, le une denunciando il carattere vago, se non contraddittorio, della teoria waltziana e dei suoi derivati, gli altri cercando di fissare condizioni più precise alle quali operano i meccanismi strutturali. 

Ricordiamo qui la critica da J. A. Vasquez. Nella sua analisi, egli si serve dei criteri di Lakatos, che servono per determinare se una serie di teorie prodotte da un programma di ricerca è progressiva o degenerativa. 
In contrasto con quanto affermato da Popper, Lakatos afferma che una singola teoria non può mai essere falsificata perché possono essere aggiunte proposizioni ausiliarie in grado di spiegare le anomalie. 
I criteri per stabilire se una serie di teorie, frutto di un programma di ricerca, è progressiva o degenerativa, sono i seguenti: 
1. il movimento da T a T’ può indicare una tendenza degenerativa se la revisione di T implica l’introduzione di nuovi concetti o alcune riformulazioni che cercano di spiegare le discrepanze empiriche di T; 
2. questa revisione può essere vista come degenerativa se non dimostra mai nuovi fatti inattesi; 
3. se T’ non ha alcuna nuova proposizione verificata o manca di nuove proposizioni ⇒ non aggiunge nulla al contenuto di T e questo può essere un indicatore di una tendenza degenerativa nel programma di ricerca; 
4. se un programma di ricerca passa attraverso un certo numero di “cambi di teoria”, ognuno dei quali presenta uno o più degli elementi sopra elencati e il risultato finale è un campo teorico con ipotesi contraddittorie che ne aumentano la capacità di passare il test empirico ⇒ quel programma di ricerca può essere etichettato come degenerativo. 

Viceversa, per essere considerato progressivo, un programma di ricerca deve non solo spiegare le discrepanze empiriche, ma anche mostrare come la logica della teoria originale o riformulata possa spiegare tali discrepanze e delineare quindi nuove proposizioni e osservazioni che la teoria originale non poteva prevedere. 
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Vasquez analizza in quest’ottica il realismo e il neorealismo, che si possono considerare come una “serie di teorie”. 
In particolare, egli analizza come il concetto di “equilibrio di potenza”, teorizzato sistematicamente da Waltz abbia dato vita ad un programma di ricerca degenerativo. 
La tendenza degenerativa parte, secondo Vasquez, dalla riformulazione di Walt: la sua teoria dell’equilibrio della minaccia, sembra, infatti a prima vista, una raffinazione del concetto. MA, se analizzata più dettagliatamente, essa presenta tutti e 4 i punti indicati da Lakatos (non a caso, l’equilibrio della minaccia viene introdotto per spiegare perché alcuni Stati non fanno balancing come previsto dall’equilibrio della potenza di Waltz) ⇒ questa prima riformulazione è degenerativa, dal momento che riduce le possibilità di falsificazione degli assunti realisti. 
Lo stesso si può dire per l’equilibrio degli interessi di Schweller, così come della conseguente letteratura sul bandwagoning, nonché dell’introduzione di nuovi concetti come chain-ganging e buck-passing da parte di Christensen e Snyder, colpevoli di aver “nascosto” l’oggetto in discussione: infatti, una teoria che tenta di spiegare il meccanismo del balancing non può essere credibile se tale meccanismo non viene accettato come la regola che si dice che sia. 

Tratto da TEORIA DELLE RELAZIONI INTERNAZIONALI di Elisa Bertacin
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