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Il mito delle Sirene in Tomasi di Lampedusa

Giuseppe Tomasi di Lampedusa- Lighea, 1956-1957 (pub. 1961)

In una brumosa Torino del 1938, tra i tavoli di un caffè di via Po ha luogo l’incontro tra due siciliani diversissimi per età, condizione sociale, cultura: l’anziano professore Rosario La Ciura e il giovane dottore in legge Paolo Corbera, mediocre giornalista alla “Stampa”. Ad accendere il circuito della comunicazione tra due persone così diverse  sarà una copia del “Giornale di Sicilia” che suscita nel professore la curiosità di verificare cosa stia succedendo nell’isola e da quel giorno i due siciliani incominceranno a frequentarsi con una certa assiduità. Fino a quando il vecchio professore, alla vigilia di un viaggio per mare che lo porterà al Congresso di studi greci di Coimbra, non rivela al giovane lo straordinario evento che ha tracciato il solco della sua vita: l’intensa stagione d’amore vissuta, nella lontana estate siciliana dei suoi ventiquattro anni, con una Sirena, Lighea. Due giorni dopo giunge alla redazione della “Stampa” la notizia che il prof. La Ciura, caduto in mare dal ponte del Rex, era scomparso tra le onde notturne.
Anche la Sirena di Tomasi, dunque, non canta è la sua voce, sono i suoi discorsi ad ammaliare. Essa però non è sinonimo di conoscenza, quanto piuttosto di voluttuosa, primordiale sensualità, nella quale, per altro, sembra riassumere tutta la possibile esperienza del mondo.
Il fascino misterioso della Sirena, tuttavia, rimane intrinsecamente quello della tradizione, anche se Tomasi vorrebbe trasformare il mito antico in qualcosa di diverso, spostandone le coordinate dalla morte all’amore. Il protagonista, infatti, non ha seguito, come pure avrebbe potuto, il fascinoso eternante richiamo della Sirena al tempo della rivelazione giovanile bensì l’ha cristallizzata nella regressione del ricordo, rimanendo fermo ai suoi 24 anni e adattandosi a vivere una vita dimidiata, fatta di studi e di sputi, di sprezzante disinteresse per gli altri, di rifiuto dell’amore, di chiusura misantropica  in realtà la sua vita è come se si fosse fermata a quelle intense settimane con Lighea ed egli è come se fosse già morto pur continuando a vivere.

A proposito del silenzio delle Sirene, tuttavia, l’esito più radicale è quello messo in scena da Pascoli nell’Ultimo viaggio di Ulisse nei Poemi Conviviali. La tragedia tutta contemporanea dell’Ulisse pascoliano, però, sta nel fatto che le Sirene proprio non esistono e dunque anche accettando la morte non si giunge comunque alla conoscenza. Se fin quasi all’ultimo l’eroe può ancora illudersi di scorgere tra le rocce la sagoma delle Sirene, “simili” a scogli, la repentina e drammatica fine svela con crudo realismo che la nave si spezza andando a sbattere proprio contro “due scogli”: scogli e nulla più.
Nell’Ultimo viaggio, dunque, anche le Sirene, ricercate da Ulisse nel suo desiderio inappagato di rivisitare gli antichi miti, si rivelano inesistenti, semplice fantasia di antichi aedi.
Età del Vero  l’autentica conoscenza non è più attingibile ma il vero consiste solo nella cruda realtà dei fatti materiali. Per la poesia, nell’epoca della scienza e della tecnica, non sembra esserci più posto.
Un ulteriore, definitiva trasformazione del mito, alle soglie del terzo millennio, è quella prospettata da Maria Corti nel suo Il canto delle Sirene (1989). In esso sono narrate storie legate al mito delle Sirene, avvenute in tempi e luoghi diversi alternate da pagine in cui le Sirene stesse diventano protagoniste, entrando in scena direttamente con i loro dialoghi e ragionamenti nei quali commentano le vicende appena narrate.
Le Sirene diventano “simboli e figure dell’ansia e dell’inquietudine mentale” della conoscenza. Ma quel che più conta è che “le Sirene sono dentro di noi”, sotto forma di immagine mentale, di voce interiore che guida ogni singolo uomo verso il suo destino.
Le Sirene, dunque, dopo la crisi radicale di inizio Novecento che le aveva condotte al più rigoroso e assoluto silenzio (o addirittura a neppure esistere), nella rivisitazione della Corti tornano a cantare, ma in una dimensione tutta interiore e psicologica. Condivisibile è l’ipotesi adombrata dall’autrice che anche il fatidico ultimo viaggio di Ulisse, quello che lo porterà – dantescamente- addirittura in vista della sacra montagna del Purgatorio, non sia che una conseguenza dell’aver egli, a suo tempo, ascoltato le voci delle ammaliatrici marine. Anche l’Odisseo omerico, dunque, non sarebbe sfuggito al fascino delle Sirene e al conseguente ineluttabile destino che segna chi ne ha ascoltato il canto fatale.

Tratto da ULISSE E IL VIAGGIO di Livia Satriano
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