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L’antropologia moderna e l’idea di viaggio

Già presente nel '700, nell'800 la comparazione diventa lo strumento grazie al quale si ritiene possibile uno studio di somiglianze e differenze che consente di formulare, sulla base di osservazioni empiriche, idee generali su cultura e società umana. L'antropologia moderna è strettamente legata all'idea di viaggio come spostamento nello spazio fisico di un soggetto conoscente; il viaggio antropologico è diverso perché comporta quella pratica intenzionale che si chiama ricerca sul campo. Dopo la I G.M. il compito dell'antropologo sul campo comincia ad essere concepito come quello di cogliere il punto di vista del nativo, il suo rapporto con la vita e capire la sua visione del proprio mondo. Da questo momento viaggio e conoscenza dell'alterità si congiungono in un progetto intellettuale e scientifico coerente ed inizia una certa venerazione per la ricerca sul campo.

Ricerca sul campo ed etnografia


Ricerca sul campo ed etnografia vengono solitamente fatte coincidere ma la sovrapposizione crea problemi, soprattutto perché si opera una specie di riduzione del lavoro dell'antropologo ad una mera raccolta di informazioni. Questa identificazione, inoltre, si basa su un'altra identificazione ormai difficile da sostenere: quella fra campo come attività di ricerca e come "luogo", "spazio" nel quale si realizza tale attività. Il campo non è sempre uno spazio geografico determinato perché l'antropologo ha compiuto spostamenti ed è venuto a contatto con estranei, inoltre la cultura studiata può anche non essere un'entità localizzabile e delimitabile. Questa identificazione, pertanto, dipende da una "finzione" che deriva da motivi pratici: l'oggetto di studio come qualcosa di circoscritto o spazialmente limitato.

La ricerca sul campo tende ad includere e ad influenzare l'etnografia poiché questa non è decondizionabile da quell'ambiente interattivo più ampio che è la ricerca sul campo, la quale comporta una serie di spostamenti, relazioni, negoziazioni e rapporti di forza tra soggetti, che finiscono per riversarsi nella pratica etnografica. In passato certi aspetti del lavoro sul campo sono stati espunti dal testo etnografico perché si pensava che in un resoconto "oggettivo" non dovessero comparire elementi ascrivibili a qualche forma di "soggettività". Questa contrapposizione fra ricerca sul campo come operazione scientifica riconosciuta ed esperienza personale inconfessabile in quanto soggettiva, quindi non scientifica, costringe l'antropologo a non dire ciò che invece lo ha messo in condizione di sapere e di parlare, procurandogli l'illusione che il suo lavoro sia il frutto di un'attività di ricerca scientifica libera da influenze esterne.
 
- Fare ricerca sul campo è problematico e fondamentale perché rende possibile l'etnografia;
- l'etnografia, dal canto suo, è una pratica di ricerca fortemente condizionata da quanto avviene in quell'ambiente interattivo più ampio che è la ricerca sul campo.

Solo se siamo consapevoli di questo fatto, possiamo usare il termine etnografia al posto di ricerca sul campo e viceversa.

Antropologia ed etnografia


L'etnografia può essere intesa in due modi:
1) come "manuale": raccogliere dati, registrare la nomenclatura di parentela, studiare determinati gesti,…). E' una descrizione esigua;
2) come "pratica interpretativa": è una forma di attività intellettuale in larga misura coincidente con l'antropologia. E' una descrizione densa.

Il lavoro antropologico consiste nel:

- vivere a contatto con persone di un'altra "compagnia";
- decodificare certe pratiche o rappresentazioni a partire da un contesto estraneo e "riportare" questo significato all'interno di un codice familiare per noi e per il pubblico;
- tradurre, cioè nel passaggio di codice da una cultura ad un'altra.

Queste fasi avvengono contemporaneamente poiché la decodificazione dei segni non può essere concepita se non in riferimento ad un altro codice (quello in cui deve essere tradotta).

Per lungo tempo l'etnografia è stata considerata come il primo "gradino" della conoscenza antropologica. Ad esempio Lévi- Strauss ha disposto in linea ascendente:

- etnografia: osservazione, descrizione;
- etnologia: comparazione, generalizzazione;
- antropologia: elaborazione di teorie e spiegazioni.

Secondo Geertz l'etnografia è in pratica coincidente con la stessa antropologia perché gli oggetti dell'antropologo (gli esseri umani) conferiscono un senso a ciò che dicono ed a ciò che fanno, quindi ai "dati" dell'etnografia.

Se in base a questa prospettiva l'etnografia può essere fatta coincidere in larga misura con l'antropologia vi sono tre modi di intendere il termine etnografia:
1) pratica di ricerca: descrizione di un gruppo,una cultura, una società → destratificazione di significati (descrizione densa);
2) studio singolo / monografia: studio particolare dedicato ad un determinato gruppo, società, cultura;
3) corpus di studi: complesso dei lavori prodotti su un determinato gruppo, società o cultura o in riferimento ad una determinata area.

Decentrare lo sguardo


La pratica antropologica implica l'adozione di un punto di vista capace di liberare, per quanto possibile, lo sguardo sull'alterità dai pregiudizi e dai condizionamenti imposti dalla cultura di colui che osserva ed interpreta. Liberarsi totalmente dai condizionamenti imposti dalla cultura alla quale apparteniamo è impossibile però dobbiamo adottare un punto di vista relativo, cioè decentrato rispetto al mondo che ci è noto attraverso le nostre categorie, le nostre abitudini mentali ed i nostri comportamenti . è il relativismo culturale, elaborato negli USA subito dopo la II G.M. Il relativismo teorizzato da Herskovits era fortemente connotato in senso etico ed intendeva promuovere un atteggiamento di tolleranza, comprensione e rispetto per la diversità; queste tendenze possono essere rilette alla luce del fatto che l'Occidente era appena uscito dalla lotta contro il Nazismo, per il quale la diversità era qualcosa da estirpare. Esso consiste nell'idea che ci siano tante culture quante sono le società, che ciascun individuo apprenda la cultura che "trova" nella società in cui nasce e vive e dà per scontato che ogni situazione, ogni comportamento, ogni mentalità trovino una giustificazione (e quindi una specie di diritto all'esistenza) nelle circostanze che li hanno prodotti. Il relativismo è dunque un atteggiamento dove la spiegazione, la comprensione e la giustificazione tendono a confondersi, fino al punto da inibire una qualunque forma di giudizio morale ed un qualsivoglia giudizio conoscitivo. I pericoli furono avvertiti immediatamente: l'atteggiamento relativista, infatti, non considera il fatto che una società ed una cultura non sono mai il prodotto di un totale consenso ma che all'interno di una società e di una cultura, per quanto "semplici" o "arcaiche" queste possano essere, esistono sempre dei punti di vista dominanti. I valori, quindi, anziché essere distribuiti e condivisi in maniera omogenea, sono sempre il prodotto di rapporti di forza esistenti fra le stesse componenti di una società. Il relativismo culturale si fonda sulla considerazione che a partire da premesse diverse sul piano culturale, gli esseri umani trarrebbero conclusioni culturali differenti; stando a questo relativismo, le culture potrebbero apparire come delle entità del tutto isolate ed intraducibili. A questa possibile conclusione epistemologica segue un suo altrettanto possibile correlato politico: il neorazzismo debiologizzato che può servirsi del presupposto che le culture si equivalgono per restaurare un discorso di gerarchia e di esclusione. Il relativismo che cade nell'errore di rappresentare mondi culturali come universi chiusi, può essere definito dogmatico tuttavia "essere relativisti" può voler dire assumere intenzionalmente un atteggiamento che consiste in una "sospensione del giudizio" e che faccia da sfondo ad un discorso che non tenti di ridurre l'altro a semplice "variabile del Noi" attraverso un impiego acritico delle nostre categorie interpretative. Questo relativismo è il metodo dell'antropologia.

Distanza e straniamento


Necessari per un antropologo sono:

1) la presa di distanza . aspetto spaziale del rapporto con l'oggetto della propria ricerca;
. nei confronti di coloro che costituiscono l'oggetto dei nostri studi;
. nei confronti di noi stessi e della nostra cultura;

2) lo straniamento non letterale, retorico, strumentale bensì intenzionale e previsto. E' una condizione per "vedere dal di fuori" situazioni che paiono radicalmente diverse (nelle quali è tuttavia possibile ritrovare un elemento di familiarità) ed anche per poter osservare noi stessi ed il nostro mondo, che ci parevano così familiari, con uno sguardo capace di coglierne l'estraneità.

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