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Cardioplegia


Viene utilizzata per proteggere il tessuto miocardico durante l’ischemia dovuta al clampaggio aortico. La cardioplegia si è evoluta dopo la sua introduzione negli anni ‘70 e possono attualmente essere schematicamente distinte due tecniche: la cardioplegia ipotermica e la cardioplegia normotermica.
Entrambe si fondano sul medesimo principio che consiste nel provocare l’arresto del cuore in diastole grazie ad una iniezione di potassio.
Dopo il clampaggio dell’aorta ascendente la soluzione cardioplegica è nella maggior parte dei casi somministrata per via anterograda attraverso la radice aortica (immediatamente al di sopra degli osti coronarici). La dose di induzione è generalmente pari a 30-35 ml/Kg in unica somministrazione e provoca un arresto cardiaco elettromeccanico, corrispondente ad un tracciato ECG isoelettrico.
E’ inoltre possibile la somministrazione della cardioplegia per via retrograda attraverso il seno coronarico (che drena il ritorno venoso del circolo coronarico). Un catetere viene introdotto nel seno coronarico e la cardioplegia circola in senso opposto a quello della circolazione fisiologica. Lo scopo è quello di garantire una sufficiente perfusione in presenza di stenosi arteriose coronariche.
Alcuni combinano queste due tecniche per assicurare una migliore diffusione della soluzione cardioplegica.
Esistono numerose soluzione cardioplegiche la cui composizione è variabile ma con alcune caratteristiche comuni tra cui un’elevata concentrazione di potassio (30-60 mEq/ml), una bassa concentrazione di calcio, una soluzione tampone (fosfato) e una osmolarità pari a quella fisiologica. Alcuni ricorrono a sangue miscelato alla soluzione cardioplegica, altri utilizzano soluzioni cristalloidi pure. Il vantaggio di una soluzione ematica risiede in un miglior trasporto dell’ossigeno mentre gli inconvenienti sono legati ad una  viscosità aumentata ed alla necessità di utilizzare una quantità maggiore di soluzione.
Infine la cardioplegia può essere ipotermica o normotermica. La cardioplegia ipotermica è costituita da un liquido somministrato a una temperatura di circa 4 o 5 °C. L’ipotermia tissutale risultante provoca un abbassamento del metabolismo cellulare e conseguentemente una diminuzione del consumo tissutale di ossigeno. Ciò consente di mantenere un cuore arrestato per più ore senza provocare una disfunzione miocardica severa. I vantaggi sono rappresentati da una maggiore praticità tecnica poiché una dose ripetuta ogni 20 o 30 minuti (in alcuni casi una singola dose) è generalmente sufficiente. L’inconveniente risiede nell’ipossia inevitabilmente presente durante il periodo ischemico con un possibile rischio di edema miocardico ed acidosi metabolica.
La cardioplegia normotermica è somministrata a 37 °C. In questo caso il cuore è arrestato unicamente a causa dell’iperkaliemia ed il consumo di ossigeno cellulare, anche se ridotto, resta più elevato. L’apporto di ossigeno deve quindi essere mantenuto ottimale e la somministrazione cardioplegica deve di conseguenza essere effettuata frequentemente o tramite una perfusione continua. I vantaggi di questa metodica sono rappresentati da una protezione più “fisiologica” a base di sangue e di ossigeno; vi è tuttavia l’inconveniente di mantenere un flusso di cardioplegia elevato (variabile in relazione alla malattia del paziente) ed un rischio di episodi ischemici cerebrali che sembrerebbe maggiore.
Allo stato attuale, non esiste metodica che appaia nettamente superiore ed ogni équipe utilizza la metodica che ritiene più appropriata in funzione dell’esperienza acquisita.

Tratto da APPUNTI DI CARDIOCHIRURGIA di Alessandra Di Mauro
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