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Lo schermo e il realismo dello spazio al cinema


L'esistenza di un meraviglioso o di un fantastico del cinema, lungi dall'infirmare il realismo dell'immagine, ne è invece la più probante riprova. L'illusione non si fonda al cinema, come a teatro, su convenzioni tacitamente ammesse dal pubblico, ma al contrario sul realismo imprescindibile di quello che gli viene mostrato.
Il trucco deve essere materialmente perfetto. Se ne deve concludere che il cinema è votato alla sola rappresentazione, se non della realtà naturale, almeno della realtà verosimile di cui lo spettatore ammette l'identità con la natura, quale egli la conosce? Una ipotesi del genere è confermata dal sostanziale fallimento dell'espressionismo tedesco ma sarebbe comunque una soluzione semplicistica ad un problema che ammettere soluzioni più sottili. Siamo pronti ad ammettere che lo schermo si apre su un universo artificiale, purché esista un denominatore comune fra l'immagine cinematografica e il mondo in cui viviamo. La nostra esperienza dello spazio costituisce l'infrastruttura della nostra concezione dell'universo; in altre parole, si può svuotare l'immagine cinematografica di ogni realtà salvo una, quella dello spazio. Si deve riconoscere che tutti i film che hanno cercato di sostituire una natura fabbricata e un universo artificiale  al mondo della nostra esperienza non ci sono riusciti.
Successi e insuccessi.
Perché, allora, ai flop di Caligari e dei Nibelunghi, fanno da contraltare i successi di Nosferatu e de La passione di Giovanna d'Arco? Perché nonostante la comune etichette di film espressionisti, vi sono fra essi delle differenze essenziali. Sono evidenti per quel che riguarda R. Wiene e Murnau: Nosferatu è ambientato per lo più in ambiente naturale mentre il fantastico di Caligari si sforza di nascere dalle deformazioni della  luce e della scenografia. Il caso della Giovanna d'Arco di Dreyer è più sottile, perché la parte della natura sembra tutta inesistente e la scenografia è abbastanza tangibile come artificiale eppure i capelli appositamente tagliati della Falconetti, la mancanza di trucco degli attori, celano il segreto estetico del film; niente in un certo senso è meno realistico del tribunale nel cimitero o del portale col ponte levatoio, ma tutto è illuminato dalla luce del sole e il becchino getta nella fossa una palata di terra vera.
Se il paradosso estetico del cinema consiste in una dialettica del concreto e dell'astratto, nell'obbligo dello schermo di significare solo per il tramite del reale, tanto più importante appare discernere gli elementi della regia che confermano la nozione di realtà e quelli che la distruggono. Ora, è assolutamente grossolano subordinare la sensazione di realtà alla quantità di fatti reali accumulati. Essendo il cinema, per sua essenza, una drammaturgia della natura, si sostituisce all'universo invece di essere ad esso incluso. Lo schermo non potrebbe darci l'illusione di questa sensazione di spazio senza ricorrere a certe garanzie naturali; ma si tratta non tanto della costruzione di una scenografia quanto dell'isolamento di un catalizzatore estetico, che potrà essere sufficiente introdurre a dosi infinitesimali nella regia, perché questa precipiti totalmente in natura. La foresta di calcestruzzo dei Nibelunghi tenta inutilmente di apparire infinita; noi non crediamo al suo spazio, mentre il fremito di un solo albero di betulla al vento sarebbe sufficiente a evocare tutte le foreste del mondo. Se tale analisi è fondata, vediamo che il problema estetico principale, nella questione del teatro filmato, è quello della scenografia. La scommessa che deve sostenere il regista è quella di riconvertire uno spazio orientato verso la sola dimensione interna a una finestra sul mondo.

Tratto da CINEMA E TEATRO TRA REALTÀ E FINZIONE di Gherardo Fabretti
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