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L’essere è ciò che è da sé il più manifesto

La non immediata accessibilità dell’essere, il suo sottrarsi alla vista, non dipende dal manifestarsi degli enti in sua sostituzione, ma dal fatto che i nostri occhi non sono abituati a scorgere l’essere che si cela dietro il manifestarsi dell’ente. Ciò che il passo di Aristotele vuole insegnarci non è che il sottrarsi dell’essere significa scomparsa dell’essere per dare spazio all’ente, perché ciò che appartiene all’essere, alla φύσις, è τά απλώς σαφέστερα, è da sé più manifesto, «riluce già da sé, senza preoccuparsi di venire immediatamente scorto da noi o no; l’essere, infatti, riluce già anche là dove esperiamo ciò che per noi è più manifesto: l’ente che di volta in volta è. L’ente si mostra soltanto nella luce dell’essere. […]. Nello schiudersi-da-sé, nella φύσις, domina pur sempre un sottrarsi, e in modo talmente decisivo che, senza il sottrarsi, nemmeno lo schiudersi-da-sé potrebbe imporsi».
Ma già Eraclito, prima di Aristotele aveva affermato:

φύσις κρύπτεσθαι φιλεί (l’essere ama [un] velarsi).

Il verbo φιλείν, tradotto comunemente con «amare», pensato in greco significa «coappartenere nello Stesso». In altre parole, secondo Heidegger Eraclito vuole affermare che all’essere appartiene un velarsi: «con questo, però, egli non dice affatto che l’essere non è nient’altro che velarsi, bensì che l’essere è per essenza (west) in quanto φύσις, e cioè in quanto disvelarsi, in quanto da sé manifesto, ma proprio al disvelarsi appartiene un velarsi. Se il velamento non avesse luogo o venisse a cadere, come potrebbe mai continuare ad accadere lo svelamento? Noi, oggi, diciamo: l’essere si destina a noi, ma in modo tale che, al tempo stesso, già si sottrae nella sua essenza».

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