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Le aperture giurisprudenziali in senso conforme alla dottrina maggioritaria


Dopo aver ricostruito brevemente l’orientamento dottrinale circa l’area di tutela dell’art. 1337 c. c. e, in particolare, circa la compatibilità tra sussistenza della responsabilità precontrattuale e conclusione di un contratto valido, è ora opportuno soffermarsi sui conseguenti riflessi evolutivi in ambito giurisprudenziale.
Infatti, il deciso orientamento della dottrina non è rimasto privo di seguito, ma ha inaugurato un processo giurisprudenziale di revisione critica, che ha condotto a talune pronunce che, benché sporadiche, sono state radicalmente innovative a tal proposito.
In particolare, nella rassegna giurisprudenziale di cui qui sotto, le singole fattispecie in concreto configurano sempre uno sbilanciamento di interessi tra le parti contraenti, a causa di una condotta sleale e scorretta di una parte, intervenuta non tanto, e non solo, nella fase delle trattative, ma anche nel momento genetico della formazione del contratto. Nonostante sia stato perfezionato un contratto valido, le condotte scorrette attuate dal danneggiante nella fase delle trattative sono state ritenute, comunque, giuridicamente rilevanti, poiché, avuto riguardo al momento in cui la parte in buona fede ha scoperto di essere stata vittima della mala fede della controparte nella fase precontrattuale, quest’ultimo è sempre stato ravvisato come successivo rispetto al momento dell’avvenuto perfezionamento del contratto. Questo è l’unico metodo giurisprudenziale per escludere l’eventuale condotta opportunistica della parte che, scontenta dalla realizzazione dell’affare, intenda opportunamente avere il risarcimento danni.
Quale ulteriore elemento comune a tutte le pronunce, la Cassazione - o il giudice di merito -, non potendo invocare il rimedio giuridico dell'invalidità del vincolo, ma, comunque, intendendo porre un qualche rimedio ad un danno che riteneva ingiusto, ha riconosciuto il diritto ad un risarcimento ex art. 1337 c. c., configurando la condotta illecita della parte danneggiante quale comportamento contrario alla buona fede oggettiva.
Questo iter decisionale comune pare confermare che, ex art. 1337 c. c., possa ricavarsi un principio generale a tutela della buona fede oggettiva, a prescindere dalla validità del contratto concluso, che può essere invocato in via sussidiaria, qualora manchi un alternativo mezzo di tutela.
In particolare, l’enunciazione più esplicita e rilevante della Cassazione a tal proposito afferma che «l’ambito di rilevanza della regola posta ex articolo 1337 c. c. va ben oltre l’ipotesi della rottura ingiustificata delle trattative ed assume il valore di una clausola generale» con la conseguenza che «la violazione di tale regola di comportamento assume rilievo non solo nel caso di rottura ingiustificata delle trattative (e, quindi, di mancata conclusione del contratto) o di conclusione di contratto valido o comunque inefficace (art. 1338, 1398 c. c.), ma anche quando il contratto posto in essere sia valido e, tuttavia, pregiudizievole per la parte vittima del comportamento scorretto (art. 1440 c. c.)».
Allo stesso tempo, i giudici di legittimità - nella medesima pronuncia -, chiarendo che l’art. 1337 c. c. assume il valore di clausola generale, il cui contenuto non può essere predeterminato in maniera precisa, sottolineano che il dovere di trattare in modo leale impone alla parte di astenersi da comportamenti maliziosi o anche solo reticenti ed obbliga a fornire ogni dato rilevante, conosciuto o anche conoscibile con l’ordinaria diligenza ai fini della stipulazione del contratto.
Questa prospettiva è condivisibile soltanto se settorialmente riferita all’area dell’intermediazione finanziaria - di cui tratta il caso di specie -, quale ambito in cui i profili legati all’informazione assumono primario rilievo tanto nella tendenza della normativa ad hoc alla completezza dell’informazione, quanto nella valorizzazione dell’adeguatezza e della trasparenza dell’informazione. Tuttavia, un’autorevole parte della dottrina - commentando questa pronuncia - ha affermato che l’ampiezza degli obblighi informativi che devono essere adempiuti dalle parti nel corso della trattativa è stata eccessivamente estesa da questa ratio decidendi, finendo con il «prefigurare un obbligo generale di informazione in capo alle parti del futuro contratto, nel senso che esse sarebbero tenute a rivelarsi vicendevolmente ogni informazione di cui esse siano in possesso, alla sola condizione che queste informazioni siano “rilevanti”».

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