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L'evoluzione della semiotica cinematografica


Oltre ai problemi derivanti da un incasellamento così ampio, si aggiunge il problema che la semiotica cinematografica si evolve molto più rapidamente della lingua perché arte e linguaggio si compenetrano assai più nel cinema che nella sfera della verbalità. La problematica semiologica non nasce comunque dal nulla, e Metz ricorda gli antecedenti tentativi di far uscire la teoria del cinema dalla palude dell’improvvisazione, della ricerca ossessiva dei principi primi, totalizzanti e normativi e delle sparse intuizioni che, anche se spesso importanti, non riuscivano a legarsi in un discorso organico. Sulla linea ricostruttiva troviamo prima di Metz Gilbert Cohen – Sèat con che nel 1946 esordisce con uno Studio sui principi di una filosofia del cinema, e Jean Mitry, che tra il 1963 e il 1965, pubblica un trattato sull’estetica e la psicologia del cinema, unendo queste due discipline parlando dell’immagine cinematografica come di una trasposizione mentale al termine della quale il reale, pur conservando le sue caratteristiche formali, si è tras – figurato.
La novità di Metz sta nell’avere portato nella ricerca cinematografica un’aria di tranquillità, di distensione e distacco scientifico che mancava fino ad allora. Anche Pasolini partecipa al dibattito ma, stranamente, rinuncia alle sue solite passionali esternazioni, assumendo un atteggiamento di grande compostezza, pronunciando timidamente la frase: il cinema è la lingua scritta della realtà.
Ma anche la semiologia è destinata a fallire. Essa è una scienza in continua metamorfosi evolutiva, e non è dunque in grado di poter analizzare correttamente un film, perché non esiste un metodo unico per analizzare i film; perché l’analisi di un film l’analisi di un film è un qualcosa di interminabile, poiché rimane sempre qualcosa di non analizzato; perché prima di avanzare ipotesi analitiche su un film, è necessario studiare la storia del cinema e della critica cinematografica, e interrogarsi sin dall’inizio su quale tipo di lettura si desidera praticare.
I semiologi finiscono soffocati da un metodo che all’inizio appariva perfettamente dominabile. Si comincia così a rivolgersi a nuove strade. Leo Braudy distingue tra cinema aperto e cinema chiuso. Il primo è il cinema di autore, il secondo è il cinema di genere, ed è il più fertile. Il cinema chiuso, infatti, permette di avere una maggiore libertà nella forma e di poter mettere in contrasto forma e contenuto, cosa che non succede nei film aperti, dove si è costretti a mettere in parallelo forma e contenuto.
Pian piano si abbandona la critica semiologica e ci si avvicina agli strumenti forniti dalla narratologia. Ma si fanno avanti anche idee decisive, come quelle di Ernst Gombrich che dice: non esiste arte bella o brutta, poiché comunque il nostro giudizio è influenzato dalle esperienze che viviamo nella società.
Nel campo della critica narratologia spicca Francesco Casetti, che parla del rapporto che di volta in volta si istituisce fra l’opera e lo spettatore, ritenuto il decodificatore e l’interlocutore della prima. Lo spettatore è colui che è in grado di cogliere, come un complice sottile, nella dislocazione della cinepresa, una spia degli atteggiamenti del regista ed il significato delle immagini

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