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L’ammissibilità delle leggi-provvedimento


Nella riflessione dottrinale è ancora presente la complessa problematica del contenuto tipico della legge, volta a stabilire se, anche alla stregua del principio della divisione dei poteri, la legge stessa debba contenere disposizioni generali, astratte e di applicazione ripetuta nel tempo, ovvero possa farsi concreto provvedimento.
Il problema è posto in termini sia di teoria generale sia di diritto costituzionale positivo: sotto il primo profilo, la dottrina recente ha ormai del tutto abbandonato l’idea che il tratto tipico della norma giuridica sia la generalità e l’astrattezza; sotto il secondo profilo, esigenze derivanti, oltre che dalla divisione dei poteri, dall’eguaglianza, dal principio di legalità, dalla tutela giurisdizionale dei diritti e che avrebbero dovuto contrastare la prassi sempre più diffusa negli ordinamenti contemporanei delle leggi-provvedimento, non hanno avuto particolare attenzione presso la Corte costituzionale, la quale ha sempre riconosciuto l’ammissibilità di siffatte leggi.
La Corte costituzionale, in particolare, ha negato che esista nel nostro ordinamento una riserva di amministrazione.
Soltanto in tempi più recenti la Corte costituzionale ha manifestato una particolare attenzione per questi problemi, sottoponendo le leggi-provvedimento ad una sorta di scrutinio “stretto”.
Comunque, da tale giurisprudenza occorre dissentire, soprattutto con riferimento alla concezione della funzione legislativa che ne è alla base: l’idea che la funzione legislativa che l’art. 70 cost. attribuisce alle Camere possa ridursi al potere di fare leggi, senza alcuna indicazione sul loro contenuto, non appare del tutto giustificata.

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