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Il principio di laicità dello Stato


Il principio di laicità dello Stato non venne esplicitamente enunciato nella Carta costituzionale del 1948: esso è stato ricavato in via ermeneutica dalla Corte Costituzionale: la laicità costituisce un “principio supremo” dell’ordinamento costituzionale e rappresenta “uno dei profili della forma di Stato” delineati dalla Costituzione italiana.
Secondo la Corte Costituzionale, il principio di laicità implica un regime di pluralismo confessionale e culturale e presuppone, quindi, innanzitutto l’esistenza di una pluralità di sistemi di valori, di scelte personali riferibili allo spirito di pensiero, che sono dotati di pari dignità e nobiltà.
Detto principio, inoltre, si pone come condizione e limite del pluralismo, nel senso di garantire che la sfera politica debba essere neutrale di fronte ad eventuali conflitti tra valori religiosi e che neutrale debba rimanere nel tempo.
Infine il concetto di laicità implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni, ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale.
Si tratta di laicità positiva o attiva, intesa come compito dello Stato di svolgere interventi per rimuovere ostacoli ed impedimenti in modo da uniformarsi a quella distinzione tra ordine delle questioni civili e ordine delle questioni religiose espressamente sancita dal Costituente.
Questi quattro obblighi rappresentano gli elementi che strutturano e costituiscono il “nucleo duro” del concetto giuridico di laicità.
Da essi la dottrina ha dedotto che la Repubblica italiana in quanto Stato laico:
non può avere nessuna religione ufficiale o tutelata più (o meno) incisivamente delle altre, ed i pubblici poteri devono astenersi dal favorire, propagandare o biasimare o valori di una determinata dottrina confessionale;
è chiamata a garantire la libertà di coscienza, di pensiero e di religione di tutti gli individui, l’uguaglianza di tutti i soggetti senza distinzione di religione nonché l’eguale libertà di tutte le confessioni religiose di fronte alla legge;
si dichiara totalmente incompetente a valutare i principi professati da una determinata confessione religiosa;
deve rispettare tutte le opzioni religiose e tutti i comportamenti che da tali opzioni discendano, purché questi ultimi siano frutto di una libera scelta e non vadano a configgere con altre libertà costituzionalmente garantite che siano ritenute preminenti ed inderogabili.
Le predette regole-cardine, che vengono a strutturare il “nucleo duro” del principio di laicità, permettono così a quest’ultimo di svolgere una funzione interpretativa e parametrica fondamentale all’interno del sistema.
Tale principio, in quanto “principio supremo”, non si limita a costituire un parametro di legittimità delle leggi ordinarie, degli atti aventi forza di legge e di tutte le altre fonti sub-legislative, ma si spinge sino ad indicare il canone in base al quale vagliare la legittimità delle stesse leggi costituzionali e delle leggi di revisione della Carta fondamentale, poiché si colloca in una posizione gerarchicamente superiore a queste.
È indubbio che il principio sta trovando applicazione prevalentemente a livello giurisprudenziale, mentre la sua vigenza è tutto sommato ignorata sia dal legislatore che dalla pubblica amministrazione.

Tratto da DIRITTO ECCLESIASTICO di Stefano Civitelli
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