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L’art. 81 cost.: l’eguale libertà delle confessioni


Tale articolo si pone come “la regola fondamentale” del diritto ecclesiastico italiano.
Questa disposizione muove da una concezione per la quale il fenomeno religioso è rilevante come tale, senza che si possano più discriminare gradi diversi di libertà per le differenti confessioni.
La considerazione statistica del maggiore o minore numero di appartenenti non può giustificare discriminazioni.
L’art. 81 cost. vincola quindi i pubblici poteri a costruire un pluralismo confessionale aperto, diretto alla realizzazione dell’uguaglianza nella libertà di tutte le confessioni religiose.
Detta uguaglianza nella libertà comporta:
che i pubblici poteri debbano astenersi dal favorire, propagandare o biasimare i valori di una determinata dottrina confessionale;
“il diritto alla parità delle chances di tutte le confessioni” e di tutti gli individui senza distinzione di religione per ciò che riguarda la partecipazione ai mezzi giuridici predisposti dall’ordinamento per rendere effettivo il perseguimento dei diritti di libertà.
L’eguale libertà garantita alle confessioni non vieta però la possibilità che ciascuna di esse possa essere soggetta ad un regime giuridico parzialmente differenziato.
Infatti, l’art. 8 cost. non preclude al legislatore la possibilità di prevedere differenziazioni nel trattamento giuridico delle confessioni, quando trovino causa nell’esigenza di tutela del pluralismo confessionale e non nella volontà di creare posizioni di favore nei confronti di una confessione.
Gli organismi confessionali possono infatti ottenere, attraverso lo strumento delle intese, l’opportuna valorizzazione della propria identità, mediante una regolazione dei reciproci rapporti con lo Stato calibrata rispetto alle proprie specificità.
Una delle questioni più delicate relative al primo comma dell’art. 8 cost. è l’individuazione di quali siano i soggetti che possono essere qualificati come “confessioni religiose”, espressione con la quale si indicano gli aggregati sociali che costituiscono manifestazioni del diritto fondamentale di professare liberamente la propria religione in forma associata.
Taluno ha posto l’accento sull’elemento quantitativo del gruppo, nel senso che si avrebbe una confessione religiosa solo in presenza dell’adesione e del concorso stabile di un certo numero di aderenti; altri hanno elaborato un criterio sociologico, nel senso che il gruppo dovrebbe avere finalità religiose per la pubblica opinione formatasi nella società italiana; o storico, nel senso che il gruppo dovrebbe essere riconosciuto come confessione religiosa stabilizzata dalla tradizione italiana.
Altri autori hanno sottolineato l’aspetto progettuale del gruppo, sostenendo che si può avere una confessione religiosa solo in presenza di “comunità sociali stabili dotate o non di organizzazione e normazione propria e di una originale concezione del mondo, basata sull’esistenza di un essere trascendente, in rapporto con gli uomini, o con la ricerca del divino nell’immanenza”.
Parte della dottrina, infine, rinunciando a una vera e propria definizione del concetto in esame, sostiene l’importanza dell’elemento psicologico degli appartenenti, rilevando che la confessione religiosa non può che essere l’esito di un processo di autoindividuazione del gruppo come tale e, pertanto, “saranno le stesse formazioni sociali-religiose ha qualificarsi e definirsi come confessione e a rendersi consequenzialmente autonome”.
La giurisprudenza costituzionale ha stabilito che per l’accertamento del carattere religioso di un’organizzazione non basta che il gruppo si autoqualifichi come “confessione religiosa”, ma occorre tenere presenti, oltre all’eventuale stipulazione di un’intesa con lo Stato (che sarebbe elemento esaustivo), gli eventuali precedenti riconoscimenti pubblici, l’esistenza di uno statuto che esprima i caratteri dell’organizzazione, la comune considerazione.

Tratto da DIRITTO ECCLESIASTICO di Stefano Civitelli
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