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La distinzione tra desistenza e recesso


La distinzione fra desistenza e recesso non appare tuttavia sempre chiara, sotto due profili.  
Prima ipotesi: può risultare difficile, nei reati a forma libera, stabilire quando l'azione debba considerarsi «compiuta»: es., Tizio, dopo aver sparato un primo colpo senza esito, non vuota il caricatore contro la vittima: l'atto già compiuto può, di per sé, rappresentare la condotta di omicidio; esso potrebbe tuttavia essere seguito da atti contestuali più efficaci.
In questo caso, si tratta di stabilire se ricorra la desistenza o il recesso (che però non risulterebbe «attivo», essendosi l'agente limitato a non proseguire).
Seconda ipotesi: il recesso può dipendere anche da un comportamento puramente negativo, senza alcuna «controattività» da parte dell'agente: es., Tizio, dopo aver minacciato Caio per farsi consegnare una somma di danaro (art. 6291), decide di non presentarsi a riceverla, impedendo così sia l'evento di profitto che quello di danno. Questa ipotesi è risolubile senza sforzi interpretativi.
Quando l'art. 56.1 richiama il fatto di «impedire» l'evento, non postula una condotta positiva, ma soltanto un risultato utile, quale che sia il mezzo impiegato per raggiungerlo: se l'inerzia risulta in concreto sufficiente, non c'è ragione di dubitare dell'applicabilità dell'attenuante «premiale».  
La prima ipotesi è invece più problematica. Sembra tuttavia imporsi la soluzione in favore della desistenza, in base alla seguente considerazione. Poiché l'idoneità degli atti deve essere stimata anche in rapporto alla loro possibile prosecuzione da parte dell'agente, non v'è ragione di considerare irrilevante tale possibile prosecuzione ai fini della desistenza (nell'es. formulato, l'idoneità dello sparo iniziale di Tizio dovrebbe essere apprezzata anche in rapporto al fatto ch'egli dispone di altri colpi da esplodere; allo stesso modo diventa significativa la circostanza ch'egli si sia arrestato).
Terza ipotesi: nei reati omissivi impropri è necessario un comportamento attivo, sia per desistere che per recedere (l’azione capace di contrastare il processo causale sviluppatosi a seguito dell’inerzia). Il criterio discretivo è abbastanza rintracciabile: mentre nella desistenza l’impedimento dell’evento è ottenuto già con il semplice compimento dell’azione doverosa omessa (es. allattamento neonato da parte della madre), nel recesso il compimento dell’azione doverosa non è più sufficiente occorrendo invece un comportamento attivo diverso per bloccare un processo causale già avanzato (es. alimentazione endovenosa del neonato ormai in condizioni critiche).
Quarta ipotesi: non è detto che la desistenza dei reati di azione debba sempre consisteste in un non facere, così che una contro-condotta positiva sia qualificabile come recesso attivo (es. Tizio avvelena i cioccolatini perché vuole uccidere Caio, ma poi li toglie perché ci ripensa). Sembra più esattamente configurabile la desistenza, poiché la contro-condotta di Tizio non interviene  su un processo causale che in effetti non si è ancora innescato, mentre piuttosto priva la condotta della sua efficacia causale. Diversamente, qualora Caio avesse già mangiato i cioccolatini e Tizio fosse intervenuto per portarlo all’ospedale farcendolo sottoporre a lavanda gastrica, senza dubbio saremmo stati in presenza di un recesso attivo.
Desistenza e recesso presuppongono la volontarietà dell'atteggiamento tenuto.
Tale coefficiente non implica (come invece la «spontaneità» nell'art. 62 n. 6) che l'agente si sia determinato per motivi apprezzabili come espressione di pentimento o di resipiscenza, ma soltanto ch'egli abbia desistito o receduto in assenza di motivi cogenti (che avrebbero ragionevolmente indotto chiunque a rinunciare all'impresa criminosa o ad attivarsi per bloccarla). Non potrebbe, ad es., ritenersi volontaria la desistenza di chi rinuncia al furto perché lo strumento da scasso non è adatto, o perché è scattato l'allarme, o perché disturbato dal sopraggiungere di qualcuno, né volontario il recesso di chi si lancia a salvare la vittima dopo aver scorto un inopinato testimone oculare della sua condotta, o di chi non si presenta a riscuotere il profitto dell'estorsione sospettando l'intervento della polizia.
La desistenza esclude la punibilità del delitto tentato, ma non quella degli atti che di per sé costituiscono un diverso reato (ad es., violazione di domicilio, ex art. 614.1, nella desistenza da un furto tentato in casa altrui).
Prevale la tesi che si tratti di una causa sopravvenuta di esclusione della punibilità, oppure di una causa di estinzione della medesima.
Il recesso configura invece l'unica attenuante, speciale e ad effetto speciale, del delitto tentato: essa soggiace quindi al regime delle circostanze.

Tratto da DIRITTO PENALE di Beatrice Cruccolini
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