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Certificazioni e denominazioni d’origine

Punti di forza e di debolezza dei marchi collettivi

Tra i punti di forza, c’è il fatto che è accessibile alle piccole imprese, anche a imprese che, su base individuale, non riuscirebbero a adottare una strategia di comunicazione della propria identità con i consumatori, ma possono farlo con l’ausilio del marchio collettivo. La necessità di definire un insieme di regole produttive, chiamato disciplinare di produzione, ammesso che le imprese siano sufficientemente omogenee e riescano a definirlo, può diventare un punto di forza per il marchio collettivo, perché, siccome il disciplinare rappresenta l’oggettivazione dell’accordo sulle regole di produzione che hanno preso i produttori, sulla base dei quali si controllano l’uno con l’altro, ed eventualmente si sanzionano, il disciplinare diventa una garanzia molto puntuale anche per i clienti. Dietro il marchio collettivo, chi ci vende il prodotto, ci sta dicendo qualcosa di molto preciso, dando una serie di informazioni, mettendo in piedi un sistema di controlli, che offre un’informazione e una garanzia della veridicità delle informazioni stesse più accurate. Tra le debolezze, il funzionamento del marchio collettivo è più complesso da un punto di vista gestionale, imparagonabile rispetto al marchio individuale. Altra debolezza è l’ambiguità delle relazioni tra partecipanti, c’è il rischio di comportamenti scorretti di free riding. Standard di qualità e certificazioni. Standard delle certificazioni utilizzati in modo massiccio nel settore agroalimentare, validi nel caso delle caratteristiche fiducia, non determinabili dai consumatori, né prima né dopo il consumo.

Esempi di certificazioni

Abbiamo i prodotti di agricoltura biologica, che si basano su un regolamento UE, un primo regolamento dell’91 che ha sostituito corpi legislativi nazionali, uniformando il sistema delle norme, rispettando le quali i produttori hanno titolo di immettere il proprio prodotto sul mercato, come prodotto di agricoltura biologica, ed è stato recentemente sostituito con il regolamento 834 del 2007. Altro esempio è la responsabilità sociale dell’impresa nei confronti dei lavoratori, SA 8000, che si concentra su vari aspetti, legati alle condizioni di lavoro nelle imprese. Esempio interessante è l’agricoltura a lotta integrata, dove c’è un abbattimento nell’uso di sostanze chimiche di sintesi, ma non la totale eliminazione come l’agricoltura biologica. Questa certificazione introduce l’importanza della ridondanza di sistemi di certificazione, che dicono ai consumatori cose non identiche, ma molto simili, mandando messaggi difficili da distinguere, che non sono decodificabili e creano un rumore di fondo, che rende difficile capire qual è l’informazione più importante, tra la gran massa dell’informazione che è presente sui mercati, veicolata ai consumatori. Questa certificazione dei prodotti a lotta integrata, fu pensata dal legislatore europeo come modo per far avvicinare gli agricoltori a tecniche produttive a minore impatto ambientale. Mentre il regolamento sulle produzioni biologiche, il disciplinare produttivo che sta dietro al regolamento, è uguale in tutti i territori, per tutti i produttori europei e si declina secondo le produzioni, così non è per i prodotti a lotta integrata, perché esistono dei disciplinari a livello regionale, a seconda di come sono divise le regioni, nei diversi paesi europei, il disciplinare cambia, e l’intensità ammessa nell’uso di alcune categorie di sostanze, può essere molto differente. Questo tipo di certificazione è troppo sovrapposta con quella dei prodotti di agricoltura biologica, generando un danno che si riflette anche sulle altre forme di comunicazione. Tra le caratteristiche delle certificazioni, c’è la possibilità che ci sia un regolamento emanato da un’autorità pubblica, ma non sempre è così; invece, è sempre vero che è accessibile una certificazione, a tutti coloro che decidano di adeguarsi agli standard previsti da quello schema di certificazione. Obbligatoriamente, nel caso di una certificazione basata su un regolamento pubblico, la certificazione a garanzia dell’informazione, deve essere fornita da un ente indipendente. Gli standard delle certificazioni, possono essere pubblici e privati; se pubblici, possono essere obbligatori o volontari, se privati, sono sempre volontari, possono avere come target una collettività di soggetti, oppure essere mirati ai rapporti business to business specifici, tra imprese legate da rapporti di fornitura. Nel caso della certificazione terza, c’è una società di certificazione indipendente; nei primi due casi, la certificazione può essere fatta dall’impresa che autocertifica la corrispondenza a uno standard, oppure da un’altra impresa che opera su mandato dell’impresa certificata.
Anche nel caso della certificazione, è utile impostare la valutazione che se ne fa, in termini di punti di forza e di debolezza. Un obiettivo della certificazione, può essere quello di definire e misurare la presenza di attributi che, altrimenti, clienti e partner commerciali non potrebbero rilevare. La certificazione rende ricerca, una caratteristica che sarebbe fiducia, perché se non ci fosse l’informazione che accompagna il prodotto e che è certificata, la caratteristica non sarebbe rilevabile dai partner commerciali. Proprio per questo, la certificazione consente una valorizzazione commerciale della caratteristica presente, una verifica della qualità, e permette all’impresa di differenziare il suo prodotto da quello dei concorrenti, consentendo di chiedere un premio di prezzo per questa caratteristica, e di attivare strategie difensive da comportamenti sleali. La certificazione, quindi, anche nelle caratteristiche fiducia, è uno strumento per aumentare la trasparenza, l’informazione presente sul mercato, e stabilire rapporti fiduciari, rendere la promessa di qualità dell’impresa credibile agli occhi dei partner. Per quanto riguarda i possibili problemi, la certificazione non sempre rappresenta correttamente il contenuto qualitativo rilevante per i consumatori; ciò può accadere per diverse ragioni, non solo può essere causato dalla cattiva fede di chi certifica il proprio prodotto. Pensiamo, ad esempio, a uno schema di certificazione delle condizioni di salute dei lavoratori di un’impresa, dei livelli di remunerazione e dei limiti posti all’uso di lavoro minorile. Cosa deve certificare un’impresa, che voglia comunicare ai propri clienti, che non sta sfruttando lavoro minorile. Potrebbe certificare che non sta sfruttando lavoratori minorenni. Ma siamo sicuri che si tratta della caratteristica qualitativa “giusta” da comunicare? Siamo certi che è questo che i consumatori vogliono? È molto complesso fare questa certificazione, trovare un accordo sul valore di questi parametri. Per trovare un accordo, quindi, nella convinzione che una qualche certificazione sia meglio di nessuna, anche perché l’informazione crea un incremento di attenzione da parte dei consumatori, le certificazioni vengono adottate, ma sono vaghe in alcuni casi. Anche scontando la buona fede dell’impresa e del soggetto pubblico, alcuni aspetti della qualità sono molto difficili da definire oggettivamente, e gli schemi di certificazione possono essere inadeguati per definire correttamente la qualità del bene per quelli aspetti.   
Ci può essere, inoltre, il vasto ambito della cattiva fede, adottare una definizione della qualità per alcuni attributi non rilevante. Sia nel caso di buona, che cattiva fede, il risultato di uno schema di certificazione, ove la qualità è definita inadeguatamente, è che si crea disorientamento dei consumatori e si può generare una disponibilità a pagare esagerata, perché il contenuto qualitativo non è oggettivamente misurabile. Si possono, quindi, verificare effetti negativi in termini di efficienza, di funzionamento del mercato, oppure lo schema di certificazione è utilizzato impropriamente, in modo sleale, o per aumentare potere di mercato, creare una barriera all’ingresso di potenziali concorrenti, che possono avere difficoltà nell’adeguarsi a quei schemi di certificazione.
Diffusione di sistemi ibridi pubblico/privato di co-regolazione, si rifà alla reciproca influenza che hanno i sistemi di regolazione pubblico e privato. Dopo le emergenze alimentari della BSE che si sono ripetute per più anni, stroncando consumi di carne bovina e mettendo in ginocchio l’intero settore italiano ed europeo, la Commissione dell’UE ha deciso di implementare il sistema di tracciabilità delle produzioni bovine, al fine di consentire ai consumatori finali di stabilire con certezza l’origine del prodotto, in termini di paese e di singolo allevamento, e creare anche un’immediata separabilità del prodotto che arriva sul mercato, in base alla provenienza, in caso di emergenza. Da una parte, informazione per far avvenire scelte d’acquisto dei singoli operatori, sulla base di parametri ritenuti importanti; dall’altra, in caso di emergenza, se si fosse generato un allarme, che potevano giungere sul mercato casi sospetti di carne potenziale dannosa, di isolare la filiera, quelle aree di produzione ritenute responsabili dell’emergenza, e circoscrivere meglio il potenziale danno, evitando che esternalità negative s’abbattessero su soggetti estranei alla BSE. Nell’attesa che questo regolamento, venisse definito e poi operativo, alcune imprese hanno concluso il loro regolamento di tracciabilità, su base privata, definendo standard, in termini di tracciabilità, che si sono certificati, e ne hanno fatto elemento di comunicazione con i clienti. L’aspettativa di una regolamentazione pubblica, ha generato un’iniziativa di certificazione su base privata, una sorta di rincorsa tra le due categorie di soggetti.

Denominazioni d’origine

Sono rilevanti per i prodotti agroalimentari, interessanti di per sé e mostrano molte delle insidie presenti nel funzionamento di segni di qualità complessi. Le denominazioni d’origine sono dei segni di qualità, complessi nella loro stessa concezione, perché sono sia marchi collettivi che certificazioni. Esse esistono da quasi cent’anni, in Europa, ma fino all’92 ogni paese europeo aveva la propria legislazione nazionale. Regolamento che fu sostituito, nel 2006, da un regolamento più aggiornato. Questo regolamento sulle denominazioni d’origine, vale per tutti i prodotti agroalimentari, esclusi i vini. Per i vini, le legislazioni nazionali sono rimaste valide, a causa dell’opposizione della Francia, che rinunciò al proprio schema nazionale, perché i francesi hanno una tradizione molto forte, sono i produttori più forti a livello mondiale dei vini, e la Francia fu il primo paese ad adottare uno schema di certificazione dell’origine dei vini. Che senso aveva, uniformare la legislazione dei diversi paesi? Ci sono due grandi obiettivi.
Semplificare l’informazione che arriva ai consumatori, e porre i produttori delle diverse aree in condizioni di concorrenza uniforme, perché se in un paese c’è una legislazione più restrittiva, rispetto a un altro, i produttori di quel paese dove la legislazione è più restrittiva, si trovano svantaggiati quando competono con produttori di altri paesi. Le varie sigle evidenziano la complessità della comunicazione verso i consumatori, relativa all’unico aspetto della qualità agroalimentare che è l’origine geografica dei prodotti; a livello europeo, per i prodotti diversi da vini, ci sono le sigle DOP (denominazione di origine protetta) e IGP (indicazione geografica protetta), le attestazioni di specificità o specialità tradizionali garantite. Per i vini, a livello nazionale, ci sono DOC, IGT. Perché le denominazioni d’origine, in generale, hanno questa doppia natura, di marchi collettivi e certificazioni? Sono certificazioni, perché, come i prodotti di agricoltura biologica, hanno un regolamento che definisce alcuni elementi che devono essere, obbligatoriamente, presenti nel processo produttivo e, obbligatoriamente, questi elementi devono essere certificati da organismi terzi accreditati dal soggetto pubblico. Diversamente dalla certificazione dell’agricoltura biologica, le denominazioni d’origine includono una differenziazione interna.
Mentre il prodotto di agricoltura biologica è completamente prodotto dall’agricoltura biologica, le denominazioni d’origine sono una famiglia di identificativi di qualità, sono prodotti con nome e cognome diversi, con riferimento all’origine, come fanno proprio i marchi collettivi. Tutti i produttori di una certa zona, che rispecchiano i dettami del disciplinare, possono chiedere di avere la certificazione della denominazione d’origine, ma la loro denominazione d’origine è un nome e cognome. L’origine, ossia il luogo fisico dove un prodotto viene realizzato, in alcuni casi può determinare la qualità di quel prodotto, e chiamando il prodotto con il nome del luogo, dove è stato realizzato, si passa un’informazione sulla natura del prodotto. Le caratteristiche del territorio, dell’ambiente naturale, del luogo di produzione, possono essere così importanti da creare un’identificazione, un rapporto biunivoco tra il nome e la qualità.

Tratto da ECONOMIA DEL SETTORE AGROALIMENTARE di Valerio Morelli
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