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Differenze tra le denominazioni DOP e IGP

Un prodotto per essere riconosciuto DOP, deve essere il risultato di un processo produttivo, indicato all’interno del disciplinare. Nel caso del prodotto IGP, una o più fasi, come materie prime o una fase del processo di lavorazione (es. confezionamento), può avvenire anche fuori zona, provenire dall’esterno. Un prodotto DOP, per il regolamento, si definisce come prodotto, la cui qualità è interamente determinata dalla zona dove viene prodotto, e ciò può essere dovuto sia a caratteristiche naturali, ambientali della zona, sia a un processo produttivo tipico di quella zona; altrove, si utilizzano accorgimenti tecnici differenti. Può essere l’uno o l’altro elemento, o la combinazione dei due: il risultato è l’unicità delle caratteristiche del prodotto, che sono conseguenza di qualcosa di unico che accade in quel territorio. Per i prodotti IGP, il regolamento dice che, il territorio d’origine è importante e determinante per la qualità del prodotto, ma non del tutto. Ci possono essere uno o più attributi della qualità del prodotto, non tutti necessariamente, che sono il frutto di caratteristiche del territorio. C’è una graduazione del rapporto tra qualità e territorio, riportata nel regolamento, e la denominazione d’origine rappresenta il vertice del legame tra i due elementi, ma non così forte. La definizione dei due casi, apre lo spazio a qualche margine di complessità, nel definire la scala gerarchica del rapporto tra qualità e origine. Esistono tanti prodotti sul mercato, certificati ai sensi del regolamento CE 510/06, che non rispettano la lettera di tale regolamento. Caso emblematico è il pecorino romano (DOP), prodotto interamente in Sardegna. La legislazione europea era arrivata nel 1992, dopo molti decenni nei quali, in alcuni paesi europei, esistevano già delle legislazioni nazionali diverse tra di loro, e diverse da come è oggi la legislazione europea. Ai sensi delle legislazioni precedenti, esempio l’Italia, poteva esistere un prodotto chiamato pecorino romano, ove erano ammessi per la sua produzione tutti i territori del Lazio, la provincia di Grosseto e, inizialmente, 2/3 provincie della Sardegna. Quando la legislazione europea ha sostituito quelle nazionali, è entrata in vigore, recependo tutto quello che al momento esisteva nelle legislazioni nazionali.
Quei prodotti che, a quella data, avevano una certificazione equivalente a quella europea, venivano automaticamente riconosciuti come denominazione d’origine europea. Il risultato finale è che, l’informazione che arriva ai consumatori è molto complessa e un po’ confusa. Nonostante il grande interesse da parte dei consumatori finali, operatori e mass media, c’è tanta confusione, non solo sul contenuto dell’informazione, anche sulla sua affidabilità. Obiettivi della normativa. Abbiamo visto che l’intento era quello di uniformare le legislazioni. A favore delle imprese del settore agroalimentare, si vogliono raggiungere due grandi obiettivi; da una parte, aiutare i consumatori a fare le loro scelte, dare più e una migliore informazione, più affidabile, certificata da un ente terzo. Dall’altra, dare uno strumento che aiuti le imprese medio – piccole, del sistema agroalimentare europeo, a stare sul mercato, le aiuti a colmare quel gap di competitività che deriva dal fatto che queste imprese sono piccole: di avere minore visibilità perché le produzioni sono marginali, i costi di produzione sono sfavorevoli, non hanno risorse per fare comunicazione e promozione. Dare, inoltre, uno strumento che aiuti gli agricoltori, il primo anello delle filiere, il più svantaggiato, tramite una valorizzazione della tipicità, della materia prima, a ottenere una porzione maggiore del valore aggiunto che si realizza sul mercato. Operare, quindi, una redistribuzione del valore aggiunto, a favore degli anelli a monte della catena. In generale, s’affida il compito alle denominazioni di essere uno degli strumenti per la valorizzazione dei territori rurali, per promuovere l’identità, lo sviluppo economico delle aree rurali. Il regolamento europeo, da quando è entrato in vigore (operativo dal 2006), ha dato un forte impulso, non solo in termini generali, anche per la creazione di nuove denominazioni. Almeno la metà dell’intero paniere delle denominazioni esistenti, è nato dopo l’entrata in vigore del regolamento, rispetto all’altra metà che esisteva già prima. Nel febbraio 2009, in Italia, ci sono state 177 denominazioni d’origine, attualmente sono sotto i 200. Sempre nel nostro Paese, salumi e formaggi sono i comparti produttivi che più fanno uso di questi strumenti, anche l’olio d’oliva. C’è una diversificazione territoriale molto spinta, la maggior parte delle denominazioni si trovano nel Nord d’Italia.


Ripartizione del numero di DOP e IGP per settore in UE
Le % si basano sul numero delle DOP, anche a livello europeo, formaggi e salumi sono tra i più importanti, così come ortofrutta e cereali. In Francia, le carni fresche sono certificate per l’origine, un comparto meno rilevante in Italia.

Ripartizione del numero di DOP e IGP per nazione
I due paesi leader sono Italia e Francia, ripartizione del 2007, l’anno in cui il nostro Paese superò i francesi.
Il grafico riporta i canali commerciali utilizzati, per la vendita dei prodotti DOP. La maggior parte dei prodotti riferiti alla tab. 5 (vedi slyde) vengono venduti attraverso la distribuzione. Sono prodotti che hanno una forte connotazione geografica, vengono esportati moltissimo, ad esempio l’80% del pecorino romano viene esportato, in Italia se ne consuma ben poco.

La tabella raccoglie dati per comparti, i prodotti riportati sono i principali: formaggi, salumi, ortofrutta e olio d’oliva. La prima colonna indica il fatturato alla produzione, in valore assoluto, dell’intero comparto, dei formaggi prodotti in Italia; la seconda colonna evidenzia il dato di quale porzione del fatturato dei formaggi, è da iscriversi ai formaggi DOP. Terza e quarta colonna sono delle quote, calcolate sulla base delle prime due colonne. Il primo valore della terza colonna, riporta la quota del segmento DOP sul comparto, è % di riga (es. 18.7% è il risultato del rapporto tra 2.460 e 13.135). L’ultima colonna è la quota calcolata sulla colonna, cioè mostra che 2.460 sono i 2/3 dell’intero valore del fatturato di tutti i prodotti DOP, qualunque sia il comparto. Nel complesso, formaggi e salumi sono i prodotti più considerevoli.
Il fatto che esistano tante denominazioni, che poi non hanno una loro realtà di mercato, è rischioso per l’affidabilità stessa della denominazione. Se una denominazione funziona male, il danno si genera, non solo con riferimento ai produttori o potenziali produttori di quella denominazione e ai consumatori interessati a quel prodotto, ma si crea un’esternalità più ampia, perché una denominazione che funziona in modo scorretto, danneggia agli occhi dei consumatori interessati la credibilità del sistema delle denominazioni. Una denominazione d’origine, come qualsiasi strumento di valorizzazione commerciale di un prodotto o marchio, è un pezzo di una strategia complessiva di marketing. C’è necessità di considerare diversi aspetti: bisogna capire se la qualità che si certifica, è quella che i consumatori vogliono; se si sta mirando a un target di consumatori, al quale si riesce ad arrivare; se c’è coerenza tra un target di consumatori e il paniere di caratteristiche che si sta costruendo, intorno al prodotto; se ci si affida ai canali commerciali giusti; se la politica di prezzo è corretta, efficace. Spesso, in Italia, le denominazioni sono nate e stanno nascendo, non per volontà delle imprese, bensì per volontà politica delle amministrazioni locali. Queste dovrebbero svolgere un altro mestiere, non sanno valutare le potenzialità di mercato di un prodotto, non sanno valutare come costruire il disciplinare, in base ai mercati di riferimento; spesso lo fanno con buone intenzioni, con l’idea di aiutare le piccole/piccolissime imprese, a dotarsi di uno strumento che le permetta di stare sul mercato. Succede, però, che tali imprese non sono coinvolte in questo processo, e non viene eseguita nemmeno una minima ricognizione. Quindi, prima di capire se fare una denominazione può essere una strategia utile, bisogna capire quali sono le prospettive di mercato concrete dei prodotti.

Tratto da ECONOMIA DEL SETTORE AGROALIMENTARE di Valerio Morelli
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