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Confronto tra legislazione inglese ed italiana su mutilazioni rituali religiose


Per limitare l’analisi alle più recenti leggi sostanziali, l’inglese e l’italiana, va segnalato che le varie forme di escissione vengono nominate distintamente ma senza differenziarne le sanzioni.
Va, tuttavia, rimarcata la diversità della politica sanzionatoria adottata dai due legislatori.
L’Act inglese prevede un’ampia escursione delle pene, tra il minimo della sola multa e il massimo della pena cumulativa.
Sicché il giudice ha un potere ampissimo di graduazione che può giungere fino alla declaratoria di non punibilità.
Infatti, la mutilazione è punibile solo se non necessaria per la salute fisica o mentale della donna.
La legge italiana, invece, prevede in ogni caso la pena detentiva con un minimo edittale particolarmente elevato (4 anni).
Con tale tecnica sanzionatoria, evidentemente mutuata dalla ricordata legge sulla violenza sessuale, si prevede una circostanza attenuante generale fino a due terzi della pena per i casi di lieve entità e una circostanza esimente soltanto per generiche “esigenze terapeutiche”, senza menzionare specificatamente la salute mentale.
Si potrebbe opinare che la scriminante non avrebbe modo di essere applicata perché le persone minorenni, sulle quali le mutilazioni vengono praticate ordinariamente, non hanno la capacità di dare il consenso, né questo può essere dato dal legale rappresentante.
In realtà, in mancanza della “gravità dell’offesa” e quindi di un danno sociale effettivo, che travalichi la mera indignazione morale, la sanzione penale appare, invero, incurante del criterio di proporzionalità, che insieme a quelli di sussidiarietà e di frammentarietà, devono caratterizzare l’intervento penale.
D’altro canto, la non punibilità a determinate condizioni non implica il riconoscimento dell’esercizio di un diritto, allo stesso modo che la procedura legale dell’interruzione della gravidanza non implica il riconoscimento di un diritto di aborto e, ancor meno, di una sua irrilevanza morale.
Invece, le due leggi, sull’aborto e sulle mutilazioni, imboccano evidentemente strade opposte: il confronto tra i due trattamenti sanzionatori degli interventi sul corpo della donna rivela una vistosa disparità di trattamento: l’interruzione volontaria di gravidanza è punita con la reclusione da 1 a 4 anni, mentre la mutilazione genitale da 4 a 12 anni e, anche nel caso di un’escissione di lieve entità, come minimo da 1 anno e 4 mesi a 4 anni.
Ma è proprio sull’intervento motivato dal serio pericolo per la salute psichica della donna che si registra una colossale disparità di trattamento sanzionatorio: quell’accertamento, comunque operato dal soggetto agente (e cioè pur senza l’osservanza delle modalità procedimentali previste dalla l. 194/78) riduce la pena per l’interruzione volontaria di una gravidanza a misure irrisorie (da 15 giorni a 3 anni), mentre per la mutilazione potrebbe al più giustificare il riconoscimento di circostanza attenuanti generiche e/o al massimo di quella dei “particolari motivi di valore morale e sociale”.
Perfino sul piano della pena accessoria dell’interdizione dalla professione sanitaria, per il caso in cui il soggetto condannato sia medico, si registra la disparità: per l’interruzione volontaria di gravidanza nessuna norma specifica, per cui la durata è quella prevista in generale da 1 mese a 5 anni, per la mutilazione volontaria genitale occorre la norma appositamente introdotta che, senza distinguere i casi di lieve entità, prevede l’interdizione da 3 a 10 anni.
Se si assumesse come parametro della risposta del legislatore agli interventi criminosi sul corpo della donna, questa legge così irrazionalmente aspra e cieca alle differenze, ne verrebbe acqua al mulino dei mai scomparsi e sempre insorgenti fautori della modifica in senso ampiamente restrittivo della l. 194/78.
La legge appena approvata, infatti, ha il valore eminentemente simbolico di additare un fatto come “male”.
In realtà, il parametro di un diritto penale razionale, efficace quanto tollerante, relativamente agli interventi sul corpo della donna è costituito a tutt’oggi dalla legge sull’interruzione della gravidanza.
Di qui l’esigenza di un “diritto penale minimo”, e perciò realistico, non solo nei precetti ma anche nelle sanzioni, capace anche di stimolare il colpevole a condotte riparatorie, in mancanza delle quali la condotta incriminata nella recente legge rischia di essere percepita come una sorta di “reato di cultura” punito in quanto tale.
Un margine di elasticità qui manca del tutto, il che non solo impedirà ai giudici scelte diversificate, m, ancor prima, impedirà al fenomeno di emergere dalla clandestinità fino a raggiungere gli operatori sociali e culturali e, quindi, a subire l’azione di contrasto dei pubblici poteri e l’auspicata riduzione della sua incidenza sociale.

Tratto da EGUAGLIANZA E DIVERSITÀ CULTURALI E RELIGIOSE di Stefano Civitelli
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