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L'abbigliamento che copre il volto: conflitto religione e Stato


Il hijāb è genericamente solo un velo, un foulard, che avvolge il capo e non nasconde affatto le fattezze del volto: pur se indossato in pubblico, non solo dalle donne ma di frequente anche dagli uomini nei Paesi islamici, oltre che nel mondo cristiano, non va incontro a limiti, tanto che se ne è ritenuta la legittimità anche a fini anagrafici.
Il limite dell’ordine pubblico può riguardare solo alcune varianti regionali o cultural-religiose del hijāb, come il chādor o addirittura il burqa, che nascondono il volto alla vista e rendono irriconoscibile la persona.
L’ansia di ricerca di sanzione, con cui si affronta la questione, ha reso usuale tra i giuristi il richiamo alla norma contenuta nell’art. 85 T.U. di pubblica sicurezza, che vieta di “comparire mascherato in luogo pubblico”.
A parte il travisamento di un copricapo cultural-religioso come maschera, a sostegno apparente del richiamo gioca l’assolutizzazione di un precetto che testualmente di riferisce però alle maschere in senso proprio, quelle teatrali.
Tale norma viene invocata in combinazione con quella contenuta nell’art. 5 l. 152/75, che vieta l’uso di caschi protettivi o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo.
L’antigiuridicità della condotta, tuttavia, è esclusa dalla presenza di un giustificato motivo, la cui nozione, ricorrente anche in altre leggi speciali, è più ampia delle generali cause di giustificazione: non coincide, per esempio, con lo stato di necessità e si estende alle “valide ragioni” pur se putative.
In sostanza, si tratta di una nozione che non è fornita dal legislatore ed è dunque affidata al concetto generico di giustizia, che la locuzione stessa presuppone e che il giudice deve pertanto determinare di volta in volta con riguardo alla liceità (sotto il profilo etico e sociale) del motivo che determina direttamente il soggetto a un certo atto o comportamento.

Tratto da EGUAGLIANZA E DIVERSITÀ CULTURALI E RELIGIOSE di Stefano Civitelli
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