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La tutela agli appartenenti a minoranze culturali, religiose e linguistiche


Si è visto come la norma di riconoscimento della laicità conduca a salvaguardare il tempo e lo spazio pubblici dall’invasività delle rendite di posizione, a preservarli dall’occupazione da parte di alcune formazioni sociali, specialmente maggioritarie.
Si tratta delle pre-condizioni per assicurare agli appartenenti a minoranze culturali, religiose e linguistiche una libertà eguale a quella di cui godono gli appartenenti alla maggioranza.
Significativa al riguardo è l’evoluzione del diritto costituzionale europeo: saldamente basato su una visione classicamente liberale dei diritti fondamentali, compresi quelli relativi alla libertà di religione e di pensiero, non ha potuto ignorare l’identità e il contributo specifico dei gruppi religiosi e delle organizzazioni filosofiche, dichiarando di mantenere con essi un dialogo aperto, trasparente e regolare.
L’affermazione dei principi illuministici dell’eguaglianza e dell’universalità dei diritti ha messo la sordina al differenzialismo quali dappertutto in Occidente, ma non anche nei Paesi in cui si sperimenta da tempo la convivenza delle comunità autoctone con quelle degli immigrati europei di diversa provenienza.
La Costituzione italiana non si limita alla previsione del classico diritto civile di libertà di religione, ma estende le garanzie di libertà anche alle confessioni religiose, una delle quali espressamente nominata, e prevede una produzione normativa bilaterale, con cui a quelli rientranti nella comune cittadinanza si accostano diritti comunitari di libertà di religione: relativamente all’istruzione religiosa nelle scuole pubbliche, all’efficacia civile del matrimonio religioso e finanche alla giurisdizione sullo stesso, al finanziamento statale alle confessioni, ecc…
Per buona parte del “secolo breve”, nel nostro Paese la libertà di religione del cittadino ha ricevuto tutela indirettamente, attraverso l’appartenenza confessionale: a seconda della forza contrattuale delle confessioni di appartenenza e con buona pace di chi (per definizione, i non credenti e gli agnostici) a una confessione non appartenga.
L’assorbimento dei diritti della persona nei diritti del fedele ha coinciso con l’obiettivo della lunga lotta intrapresa dalla Chiesa cattolica nei confronti dello Stato liberale, che tendeva a disconoscerla come ordinamento indipendente e sovrano.
Al fondo di questa rivendicazione, conclusasi con il Concordato del 1929, si può scorgere, infatti, non solo il recupero di un protagonismo nello spazio pubblico della società italiana, ma anche e indirettamente l’universalizzazione dei diritti e dei doveri connessi alla “cittadinanza ecclesiastica”.
L’appartenenza confessionale diventava così essa stessa condizione necessaria per il godimento effettivo delle garanzie collegate alla dimensione religiosa e, in senso lato, culturale della personalità.
La piattaforma concordataria (estesa per ragioni di uguaglianza, attraverso le intese, anche a confessioni diverse dalla cattolica) ha funzionato da base per il superamento di una strutturazione dei rapporti sociali affidata dallo Stato liberale soprattutto, se non esclusivamente, all’autonomia dei soggetti.
Si è finito così quasi per ricreare situazioni simili ai tradizionali status: appiattendo, cioè, i diritti della persona in materia di coscienza e di religione su quelli del cittadino ecclesiastico, del fedele, purché appartenente a confessioni “convenzionate” con lo Stato.

Tratto da EGUAGLIANZA E DIVERSITÀ CULTURALI E RELIGIOSE di Stefano Civitelli
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