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Libertà di abbigliamento e funzione pubblica del soggetto


La prevalenza della laicità dello Stato o della libertà di abbigliamento dipende dal maggior o minor grado di immedesimazione delle funzioni svolte dal soggetto in quelle proprie della pubblica amministrazione: la bilancia non può non pendere verso la laicità quando l’attività del funzionario pubblico è idonea a esprimere al massimo la tendenza della pubblica amministrazione, come è tipico delle funzioni autoritative dei pubblici ufficiali.
Peraltro, nel caso degli insegnanti (per i quali l’esercizio di funzioni autoritative è decisamente soverchiato da quello delle funzioni educative, sicché ben potrebbe ritenersi prevalente la libertà di insegnamento) bisogna tener conto del miglior interesse del fanciullo.
La tensione dialettica tra i due diritti in questo caso è tanto maggiore quanto minore è l’età del bambino e non può non tener conto prevalentemente del diritto del bambino a un’educazione pluralistica.
Che il quotidiano rapporto con un’insegnante dall’abbigliamento culturalmente orientato ostacoli questo tipo di educazione non è scontato, abbisogna di essere provato, ma non è da escludere a priori.
Il principio del bilanciamento non può non governare anche la questione dell’abbigliamento delle alunne nelle scuole.
Proprio in considerazione del miglior interesse delle alunne che (al di fuori di patologie criminose, come la violenza privata) volontariamente scelgono di velarsi una volta raggiunta l’età puberale, dovrebbe prevalere la libertà di abbigliamento, come del resto è riconosciuto in molti Paesi europei e in Italia.
Particolarmente significativo è il caso affrontato dalla sentenza della Corte d’Appello di Liegi, riguardante la richiesta di studentesse che, indossando il velo a scuola, intendevano indossarlo anche negli stages che svolgevano all’esterno della scuola.
La Corte nega tale possibilità con un percorso motivazionale originale che la porta a distinguere la loro funzione rispettivamente di erogatrici del servizio scolastico negli stages o di utenti dello stesso nella scuola: nel primo caso, svolgendo attività su un piano in senso lato istituzionale, esse vanno incontro ai limiti necessari per assicurare la neutralità della pubblica amministrazione e quindi non possono portare il velo, nel secondo, invece, l’uso del velo non incontra ostacoli.
Questa intelligente posizione intermedia vacilla sotto i colpi del consueto fenomeno imitativo della vicina Francia, che ha imboccato la via proibizionistica in nome dell’applicazione cieca alle differenze del principio di laicità.
Ma in democrazia tutto si tiene e per il suo mantenimento va assicurato l’insieme delle libertà secondo un dosaggio che può anche risultare penalizzante per una singola libertà ma complessivamente garantisce la tenuta del sistema, minando le condizioni per un possibile mutamento del regime politico e, in definitiva, per una rivoluzione.
Gli ordinamenti non ignorano quest’azione preventiva, che implica la possibilità di neutralizzare forzosamente gli spazi pubblici, limitando talune libertà o vietando un determinato abbigliamento: si pensi, ad esempio, alla norma che vieta in Italia “manifestazioni usuali del disciolto partito fascista”, tra le quali ben potrebbe rientrare l’abbigliamento proprio degli squadristi, o a quella della Turchia che vieta appunto di indossare il velo.
Piuttosto il problema è quello della ricorrenza del controlimite rappresentato nell’art. 9 CEDU dalla proporzionalità della misura adottata rispetto al pericolo da fronteggiare: e non sembra dubbio che i pericoli oltre ad essere abbastanza circoscritti e non sintomatici di una situazione generalizzata, non appaiono neppure lontanamente paragonabili a quelli posti alla base delle leggi italiana e turca.

Tratto da EGUAGLIANZA E DIVERSITÀ CULTURALI E RELIGIOSE di Stefano Civitelli
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