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Discorso di verità nel Cristianesimo



Nel Cristianesimo si svilupperà l’arte di parlare, lungo 2 registri: parlare dalla parte del maestro, e poi c’è la Parola della Rivelazione. C’è la funzione di insegnamento della verità, ci sono attività di prescrizione, c’è il direttore di coscienza e poi c’è il confessore. Ma qui è importante che chi viene diretto ha comunque qualcosa da dire, una verità, la verità di se stesso. Il dir vero su se stessi diviene una condizione della salvezza. Ma nell’antichità non si ha il dovere di dire il vero, neppure su se stessi. Basta tacere. Nell’antichità la confessione ha solo valore strumentale. Il soggetto deve diventare soggetto di verità, occuparsi di discorsi veri, il che comincia con l’ascolto. Deve dire la verità a se stesso, ma non serve che dica la verità di se stesso. Non ci sono diatribe in cui si vuol far giungere il soggetto a dire la verità su di sé..lo si vuole solo sottoporre a verifica; anche l’interrogazione socratica da un lato mostra al soggetto che non sa ciò che credeva di sapere, e viceversa, dall’altro mette alla prova il soggetto nella funzione di soggetto che enuncia un verità, perché prenda coscienza della sua capacità di dir vero, capisca a che punto è. E cosa avviene nel discorso del maestro? Qui entra la nozione di parrèsia. Il discepolo tace, il maestro dirà tutto con franchezza. Termine usato dai latini è libertas. Che si dica quel che si pensa di dover dire. È una qualità morale. È la libertà di parola. È anche la forma necessaria al discorso filosofico, perchè per poter utilizzare il logos serve una lexis (un certo modo di dire le cose), ed un certo numero di parole scelte. La parresia è insieme arte e morale, tecnica ed etica. Il discorso del maestro non sia un discorso che obbedisce alle leggi della retorica, non di seduzione, ma fatto in modo che il discepolo possa farlo proprio. Ci sono dunque regole per la formulazione del discorso di verità. Questa è la parresia.

Tratto da ERMENEUTICA DEL SOGGETTO di Dario Gemini
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