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ETERONOMIA



L’oggetto artistico, se costruito secondo un criterio di eteronomia, fa riferimento ad una legge altra da sé che chiede all’oggetto artistico la capacità di rispondere a qualcosa di non risolvibile attraverso una legge data da sé a sé perché la domanda alla quale rispondere ha a che fare con relazioni con qualcosa che eccede l’oggetto artistico.
Un’eccedenza classica è sintetizzata dall’irriducibilità de tipo universale all’esemplare particolare infatti ad esempio il tipo della casa è irriducibile a qualsiasi suo esemplare particolare ovvero a qualsiasi casa concreta.
Esistono le case A,B,C,D ma l’idea di casa è una e condivisa dalla totalità delle case A,B,C,D ma non costruita ovvero non riducibile a una qualsiasi costruzione infatti se immaginiamo di possedere l’idea di casa, cioè il tipo universale, e si prova a mettere in forma l’idea, cioè costruire la casa che coincide in modo perfetto con l’idea di casa, ci si accorge di non poter fare l’operazione voluta perché ci si trova a dovere selezionare una forma particolare che quindi perde la sua universalità, la casa costruita quindi è una casa e non la casa, è un esemplare particolare di un tipo universale.

È essenziale lavorare con un metodo fondato sulla relazione tra esemplare particolare e tipo universale perché quest’ultimo rappresenta l’oggetto di riferimento estrinseco e quindi il fondatore dell’eteronomia architettonica che costringe l’architetto a costruire un oggetto che sappia essere una soluzione particolare responsabile preferibile ad alternative possibili numerose e il risultato ultimo è stato trovato attraverso la comparazione tra sé e il tipo.
Il criterio di eteronomia significa comparazione tra architettura particolare che si costruisce e il suo tipo universale e questo è uno strumento di sviluppo che fa arrivare a scegliere un’architettura particolare dopo un esercizio di comparazione tra qualcosa di reale e qualcosa di ideale.

Schelling ritiene che valga ancora la dimensione cosmica come regola dell’artefatto architettonico. La sua estetica specifica che gli oggetti architettonici sono referenziali nel senso che sono le allegorie degli oggetti organici.

Schopenhauer sostiene che l’architettura faccia riferimento agli elementi della natura, come ad esempio la luce o la forza di gravità, che poi rappresenta.
Nell’architettura vengono rappresentate le leggi della natura.
Schopenhauer riprende il discorso di Shelling e lo tratta in maniera più complessa.

Sia nel lavoro di Schelling che nel lavoro di Schopenhauer è possibile trovare qualcosa della filosofia di Kant ovvero la sottolineatura del potere referenziale dell’arte cioè della possibilità che gli esseri umani hanno di passare da un oggetto concreto ad un oggetto astratto se il primo ha il potere straordinario di fare pensare molto.
Il meccanismo che fonda l’eteronomia ha genesi dalla filosofia di Platone e si basa su una visione secondo la quale qualsiasi cosa X è riferibile ad una cosa Y necessaria all’identificazione del suo senso e del suo significato per cui X non è risolvibile nello scioglimento di sé dalla relazione con altro da sé ovvero nella sua autonomizzazione.

Lukács elabora l’idea secondo lui l’arte deve essere referenziale nel senso che deve fare riferimento alla realtà in particolare l’oggetto artistico deve essere il rispecchiamento della realtà oggettiva.
Egli quindi sostiene che esista la realtà e l’arte e l’arte deve rispecchiare la realtà per educare e guidare meglio le azioni degli uomini.
L’arte infatti è un mezzo importantissimo per comprendere meglio la realtà e migliorare la propria condizione, il riferimento secondo egli non è tanto la natura ma la società umana che l’arte deve appunto rispettare.


Valéry autore di “Eupalino o'l'architetto”.
Egli scrive un dialogo in cui i personaggi evocano Eupalino, modello dell’architetto perfetto ed emerge cosa si intende per architettura, in particolare un’architettura riuscita.
Egli propone un’analogia tra la figura dell’architetto e la figura del medico chirurgo per le elevate responsabilità che entrambi hanno sul destino dell’uomo (responsabilità etica) infatti il chirurgo ha tra le mani la vita dell’uomo e lo stesso vale per l’architetto.
L’architetto ha il dovere di avere una visione lungimirante in quanto ogni progetto ha influenza sul destino di intere generazioni e può causare danni sull’agire umano.

Egli suddivide le architetture in tre gruppi utilizzando una metafora con l’essere umano:

1. Architetture mute (peggiori), si tratta di quelle architetture che non meritano che disdegno, davanti alle quali si esclama “che brutte, si sta male in questo spazio” che equivale a dire sono architetture non a misura umana.
L’espressione “non dice niente” è un’espressione metaforica e vale a dire che un’architettura non rappresenta niente che ha a che fare con chi guarda o con la sua poetica, è evidente che in questi casi non c’è stata un’idea di che cosa sia l’architettura al momento della sua fondazione.
Costruzione vs architettura
La mera costruzione è muta perché non rappresenta che cos’è la buona architettura e nemmeno la spaziotemporalità umana e quindi è qualcosa di autonomo e non di eteronomo, l’architettura invece deve almeno rappresentare la sua poetica.

2. Architetture che parlano, per definirle viene fatto l’esempio dei tribunali che devono esprimere l’equità delle leggi e questo è rappresentato da un’architettura austera e severa e sono caratterizzati da un linguaggio schietto che significa la capacità che un’architettura ha di rappresentare la sua identità attraverso la sua estetica e al contempo la capacità che un’architettura ha di essere l’identità che la sua estetica rappresenta.
Lo stesso discorso vale per la casa se fa affermare “questa è una casa” allora parla mentre se non si capisce dove ci si trova siamo di fronte ad un’architettura muta.
L’architettura deve svelare la sua identità ovvero la sua poetica per rappresentare quello che è, si tratta quindi di un’architettura che dice bene chi è allora parla, in questo caso si può parlare di buona architettura.
3. Architetture che cantano (migliori) si tratta di quelle architetture che parlano al loro grado massimo e che vengono definite opere d’arte davanti alle quali si esclama “è cosi bella che non vi aggiungerei niente e non vi toglierei nulla”, significa che è un’architettura pulita come un osso ovvero essenziale.
Sono quelle architetture così perfette e così riuscite che non viene in mente un’alternativa migliore in quanto soddisfa l’immaginario ad esempio di casa ideale perché è il frutto di un’astrazione ben fatta nel senso che si è mantenuto soltanto l’essenziale e si è buttato via il resto.


Rappresenta esattamente quello che doveva rappresentare e in particolare rappresenta che cos’è un uomo.
Gli oggetti architettonici capaci di cantare sono quelli che “si sono fatti da sé, ed han la forma migliore che l’uso secolare abbia potuto imporre, chè la pratica innumerevole, raggiunta un giorno quella ideale, vi si ferma” e questa affermazione richiama Platone quando afferma che “i giovani devono abituarsi a coltivare belle movenze e belle melodie e dopo aver fissato quali e come devono essere, le esposero […] e vietarono ai pittori […] di inventarne di nuove”

Goodman sostiene un principio di autonomia sia nelle arti in generale che nell’architettura in particolare.
Ogni opera d’arte riuscita, così come ogni teoria scientifica, parla di una x che è la stessa opera d’arte a fabbricare e a generare ovvero parla di sé, di un proprio prolungamento ontologico e quindi è autonoma.

Le architetture possono rappresentare qualcosa in tre modi diversi:
1. Denotare (livello peggiore), procedimento che alcune architetture hanno seppur raramente ovvero si tratta di quelle architetture che in maniera letterale copiano un oggetto altro da sé (chiosco di banana a forma di banana oppure la Sagrada Famila che imita la morfologia della Catalogna).

2. Esemplificare, ovvero quelle architetture che mostrano i loro principi costruttivi (strutturali, compositivi) potrebbero essere ricondotte alle architetture che parlano con un tono leggero, si possono trovare esempi ogni qualvolta un’architettura rende visibile la sua costruzione.

3. Esprimere, si tratta del livello più sofisticato.
Esprimere deriva da ex premere che significa portare fuori un significato complesso che spesso ha a che fare con la sua identità (ad esempio, San Miniato al Monte).
Il meccanismo di espressione è il vertice del potere simbolico dell’architettura e un’architettura esprime nel momento in cui fa riferimento ad una sua caratteristica metaforica che significa fare riferimento ad un oggetto astratto.

E. Paci fa parte della scuola filosofica di Milano, influenzatore e collaboratore di Rogers e lavora alla nozione di eteronomia architettonica e ritiene che se un’architettura fa riferimento a qualcosa allora fa riferimento a qualcosa che è irriducibile a sé ovvero altro da sé.
Ha parlato di architettura referenziale e quindi riuscita in due sensi:
→ architettura deve rappresentare il passato.
È essenziale studiare la storia dell’architettura e saper relazionare la circostanza presente con le circostanze passate perché i “morti” parlano in modo nuovo e suggeriscono nuove forme basti pensare alla strutturazione della città che fa riferimento al passato che appunto aiuta a costruire meglio in futuro.
La cognizione delle soluzioni passate allarga l’insieme degli esemplari particolari possibili a portata di immaginazione e aumenta il potere di immaginare l’esemplare particolare che è preferibile alle sue alternative possibili.
→ architettura deve fare riferimento alla natura.

La relazione tra l’architettura e il presente fa invece riferimento alla necessità di mettere in relazione gli oggetti architettonici e la natura ma anche gli oggetti architettonici tra di loro.

Paci inoltre sottolinea l’importanza di considerare il microcosmo e il macrocosmo e di prendere atto dell’infinità delle relazioni istituibili infatti ogni spazio interno ad esempio può diventare un sterno basti pensare ala facciata di un edificio che è esterna rispetto allo spazio che racchiude ma interna rispetto alla strada.

Mies van der Rohe
cita in qualche modo la posizione di Platone contro l’attribuzione della priorità alla variazione e alla ricerca dell’originalità piuttosto che la conservazione della perfezione che è già stata trovata infatti a tal proposito ritiene sia necessario “costruire come l’ingegnere” e “servire invece di dominare” che significa “persistere nell’umiltà, rinunciare all’effetto e compiere fedelmente il necessario e il giusto” ovvero evitare di fare qualcosa di mai visto solo per un obiettivo narcisista e non per migliorare l’umanità.
La ricerca di una forma che non si è mai vista prima se non è guidata dall’universale significa che non si era mai vista prima semplicemente perché è una strada sbagliata per rappresentare l’universale (esempio una chiesa con colori sgargianti).
Ha senso fare qualcosa di nuovo solo se questo è migliorativo rispetto agli esemplari contenuti nell’insieme.

Aldo Rossi in “L’architettura della città” sottolinea l’importanza del tipo, ovvero il rapporto tra particolare e universale declinato in architettura.
Egli fa riferimento alla definizione di Quatremére de Quincy secondo cui il tipo non rappresenta tanto l’immagine di una cosa da copiarsi perfettamente ma piuttosto l’idea di un elemento che deve servire d regola al modello, il particolare è quindi un modello concreto mentre l’universale è un’idea astratta. Il tipo rappresenta un elemento che deve servire da regola non per essere copiato ma per essere considerato una sorta di metodo, è importate dunque perché è la regola di costruzione di esemplari particolari, l’enunciato logico che sta prima della forma e la costituisce, ha un carattere di necessità. Si può condividere un tipo ma si faranno comunque esemplari particolari diversi.
Il metodo di lavoro identificato dalla nozione di tipo universale è fondativo in quanto indica da quali condizioni precise partire ma non a quali condizioni bisogna arrivare per cui è da considerare un metodo fondativo e non esecutivo.
La nozione di tipo è un’articolazione essenziale della nozione di eteronomia architettonica in quanto la riuscita dell’esemplare particolare è legata al fatto che essendo posto in relazione con il tipo universale è spinto alla revisione continua di sé che significa sia la correzione continua dei suoi errori sia il lavoro continuo alla sua perfezione che ancora una volta è particolare e non universale.
A tal proposito i maestri dell’architettura dovranno essere presi come esempi non per i loro esemplari ma per le loro regole in quanto un esemplare non può essere copiato (ad esempio, gli spazi pubblici che andavano bene negli anni Sessanta non possono essere replicati adesso).

L’architetto che sceglie la via dell’eteronomia sceglie la strada più faticosa ma che può assicurare di lavorare al massimo delle proprie possibilità e di arrivare al risultato massimo possibile che può essere preferibile anche per gli altri individui a differenza di quanto avviene quando si sceglie invece la via dell’autonomia che è meno complicata e seduce attraverso la libertà che sottintende e non costringere a rispondere ad un numero di richieste e quindi incontra pochi attriti tanto che può arrivare a coincidere con l’assenza di un metodo autentico.

Tratto da ESTETICA DELL'ARCHITETTURA di Francesca Zoia
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