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La virtù come vera fonte di felicità

L’Humanitat è strettamente collegata al concetto di virtù, che è il costrutto propriamente umano nel contesto della cultura. La vita eticamente qualificata è quella vita in cui si istituisce una subordinazione della felicità, che è lo scopo iscritto nella natura sensibile fenomenica dell’umano, alla virtù. Tale subordinazione non rappresenta altro che la limitazione della tendenza al piacere secondo le leggi della virtù che regolano il rapporto conoscere – desiderare e le implicazioni del sentimento. «Quello stato – scrive Kant in un passo del saggio Sul detto comune – (…) per cui in caso di collisione di certi miei fini con la legge morale del dovere io sono consapevole di preferire quest’ultima, non è semplicemente uno stato migliore, ma il solo stato in sé buono: è un bene di tutt’altro genere, dove non si prendono affatto in considerazione i fini che mi si potrebbero presentare (e dunque la loro somma, la felicità), e dove il motivo di determinazione dell’arbitrio non è costituito dalla sua materia (un oggetto che stia a fondamento), ma dalla semplice forma della universale conformità alla legge della massima dell’arbitrio». L’esercizio della virtù comporta, dunque, che quando l’uomo «sia di fronte al comando del dovere (…) non debba fare della felicità [personale] la condizione dell’osservanza della legge prescrittagli dalla ragione e che anzi, per quanto gli è possibile, debba cercare di diventare consapevole se qualche movente derivato dalla felicità non si insinui inavvertitamente nella determinazione del dovere».
Se per certi versi Schleiermacher si dimostra molto distante dalle affermazioni di Aristotele (secondo il quale la felicità è un fine che vogliamo per se stesso e che essa consiste propriamente nell’agire dell’anima secondo virtù) nel momento stesso in cui accetta il criterio kantiano che, ritenendo la felicità un criterio di giudizio soggettivo e non universale, la considera come mezzo in vista della moralità (il vero fine dell’uomo), è altresì vero che egli non manca di fare delle precisazioni che lo allontanano in parte anche dalla filosofia morale kantiana. Schleiermacher afferma, infatti: «la felicità è estranea al mio sentimento morale», nella misura stessa in cui essa è separata dalla virtù. Nell’introdurre il concetto di virtù, che viene designata come «severa», quasi a volerne indicare la lontana ascendenza stoica, il nostro autore la contrappone sistematicamente alla brama di felicità.
Tuttavia la virtù, «sacro desiderio di conformare alla razionalità la mia intera esistenza!», è fonte di felicità, di una felicità che, tenendo sempre presente il valore dell’altro, sa rispettarlo senza opprimerlo e senza travalicare il proprio limite, riconoscendogli la dignità di persona.
In Schleiermacher non esiste assolutamente distinzione alcuna tra “felicità fisica” e “felicità morale” (quest’ultima partecipe, in ottica kantiana, del concetto di perfezione morale). Anzi, nel testo Il valore della vita, il teologo tedesco dimostra chiaramente di non transigere alcuna distinzione di questo genere. Scrive a tal proposito: «Ho sempre sentito molto parlare (…) di una vera e falsa felicità, eppure non c’è corda nella mia anima che corrisponda a questa intonazione». Infatti è superfluo introdurre ulteriori distinzioni in merito alla felicità quando è già stata premessa la divaricazione esistente tra virtù e felicità: un genere di gioia incompatibile con la virtù è semplicemente una privazione di essa. Perciò il nostro autore soggiunge: «Se deve essere mio compito limitare il mio desiderio di felicità con i dettami della virtù, dove può esservi qui il vero e il falso?».

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