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La CNN e il genocidio in Rwanda

La notte tra il 6 e il 7 aprile 1994, Radio Télévision Libre des Mille Collines comincia a trasmettere appelli per vendicare la morte del presidente Habyarimana, appartenente alla maggioranza hutu, il cui aereo era stato abbattuto quella mattina. Comincia il genocidio rwandese. 
In realtà, lo sterminio era stato pianificato dall’alto molti mesi prima della morte del presidente, avvenuta probabilmente per mano degli stessi protagonisti del massacro: era infatti in atto un processo di democratizzazione che spaventava le elite hutu vicine al regime. 
Come la Bosnia-Erzegovina illustra che una copertura in chiave etnica del conflitto può provocare e influenzare un intervento umanitario, il caso del Rwanda illustra come un simile tipo di lettura può in altri casi generare indifferenza e contribuire a ignorare la tragedia. 
Mel McNulty afferma che l’approccio del giornalismo internazionale nei conflitti della regione dei Grandi Laghi soffre di 3 grandi difetti: 
1 − il “giornalismo da paracadute”, caratterizzato dall’ignoranza del reporter, che si precipita in fretta sul luogo per coprire l’evento, ma che non possiede gli strumenti per comprendere la situazione, divenendo facile preda di manipolazioni; 
2 − altri giornalisti hanno invece a disposizione un bagaglio culturale più nutrito, che tuttavia li porta di frequente ad esaltare le radici etniche del conflitto; 
3 − altri ancora seguono un’agenda segreta, influenzata dagli interessi di altri paesi nella zona di crisi. 

Quando inizia il genocidio, comincia anche una fuga precipitosa della presenza occidentale nel paese, giornalisti compresi. Inoltre, il 10 maggio 1994 in Sudafrica viene eletto presidente Nelson Mandela ⇒ la risposta della CNN è che, pur sapendo cosa stava accadendo, raccontare contemporaneamente 2 scenari africani avrebbe confuso il pubblico americano. 
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Il Rwanda riceve una scarsissima attenzione: non si comprende la portata del genocidio, sia per l’ingenuità di un giornalismo “mordi e fuggi”, sia per i pregiudizi culturali che l’approccio all’Africa porta con sé ⇒ i massacri vengono ridotti a scontri interetnici, in cui le violenze provengono da entrambe le parti e le uniche fonti cui si affidano i giornalisti sono rappresentanti delle ONG, truppe ONU e altri giornalisti, che rafforzano questa lettura. D’altra parte, la quasi assenza di immagini non permette al Rwanda di diventare una storia da apertura di telegiornale. 
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Questa volta non si attiva nessun CNN effect. 
Quando la televisione e gli altri mass media arrivano in massa, il genocidio è praticamente già concluso: di fronte ai tutsi, gli hutu fuggono in interminabili code; in meno di una settimana, un milione di profughi attraversa il confine con lo Zaire, per ammassarsi sulla costa del lago Kivu, senza cibo, medicine né latrine adeguate ⇒ si diffonde il colera e muoiono 3.000 persone al giorno. 
Sono queste le tragedie che avvengono sotto gli occhi delle telecamere, raccontate nei minimi dettagli: il genocidio viene spinto sempre più indietro dal rapido susseguirsi delle notizie sulla catastrofe umanitaria. MA l’emergenza umanitaria conferma la natura interetnica del conflitto, rappresentando il suo naturale compimento ⇒ la storia raccontata dai media non parla di un genocidio e delle sue conseguenze, ma è una storia di rifugiati e di sofferenza. 
L’elemento della cosiddetta “agenda segreta” è evidente nel caso degli USA, appena svincolatisi dalla Somalia, che non hanno intenzione di intervenire in un altro “cuore di tenebra” africano. 
Ma c’è, soprattutto, il ruolo ambiguo della Francia in relazione agli eventi che portano al genocidio: Parigi, infatti, fin dal 1990 appoggia il regime hutu di Habyarimana, rifornendolo di armi. Quando l’emergenza umanitaria in Rwanda si fa strada nei media, si creano le condizioni per un intervento diretto della Francia ⇒ alla fine di giugno viene intrapresa l’Opération Turqoise, con l’intenzione dichiarata di mettere fine alla crisi rwandese. I media francesi evitano però di criticare le forze del regime hutu, cercando di distribuire equamente i torti tra hutu e tutsi. 
La globalizzazione dei media e il continuo flusso di notizie in tempo reale porterebbe secondo alcuni alla trasformazione del mondo in una nuova “comunità immaginaria”, basata non più su legami geografici, ma sull’empatia che sprigiona dai media. 
In realtà, vicende come quella del Rwanda dimostrano che la situazione è ben diversa: anche quando le immagini che documentano un genocidio arrivano in tutte le case, la reazione delle opinioni pubbliche può essere caratterizzata da indifferenza e apatia. 
La scelta da parte dei media di non raccontare una guerra può derivare da molti fattori: 
1 − secondo alcuni, nell’era delle televisioni satellitari è prima di tutto la disponibilità di immagini a determinare se una guerra può o non può divenire una “crisi globale” = un avvenimento riconosciuto come degno di essere tradotto in uno spettacolo mediatico. MA oggi, grazie agli stringers locali e alla diffusione delle tecnologie, il materiale visivo abbonda. 

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1 − la questione principale è come i media globali distribuiscono i propri giornalisti nel mondo e in che caso un evento viene ritenuto degno di essere trasformato in notizia. Coprire una guerra è molto costoso, oltre che rischioso: 
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0i giornalisti valutano caso per caso se i costi superano o meno l’interesse pubblico per un determinato evento 
1alcune località, i cosiddetti press-beat, ricevono un’attenzione continua in quanto i media vi posizionano stabilmente i propri corrispondenti, come a Washington o a Gerusalemme; altre, invece, non ricevono lo stesso trattamento 
2anche quando si decide di coprire un’area di conflitto che normalmente non è un press-beat, si attiva una “sindrome del domino” = la competizione economica tra le diverse testate porta i giornalisti ad inseguirsi a vicenda, per non perdere fette di pubblico ⇒ l’informazione tende ad omogeneizzarsi 
0i media continuano ad obbedire a logiche di tipo domestico: perché una crisi internazionale riceva attenzione, il più delle volte è necessario che siano i politici a mobilitare stampa e televisione ⇒ se non ci sono interessi in gioco, è molto più probabile che la crisi venga ignorata. 

In relazione ai vari conflitti negli anni ’90, dalla Somalia alla Bosnia-Erzegovina, dal Rwanda alla Cecenia, nelle dichiarazioni dei politici l’impatto dei media sembra essere tenuto in forte considerazione. Non sempre però si può parlare di un puro CNN effect. 
Piers Robinson ha elaborato un modello che permette di spiegare quando l’influenza dei media si rivela determinante e quando invece rappresenta solo un fattore secondario. Affinché si attivi il CNN effect sono necessarie 2 condizioni: 
1 1. la copertura mediatica deve esprimere empatia con la sofferenza delle popolazioni coinvolte e deve essere critica nei confronti delle politiche dei governi 
2 2. tale copertura può incidere solo a patto che non esista una linea decisionale forte, molto difficile da scalfire da parte dei media. 

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Applicando questo modello alle guerre degli anni ’90, vediamo che solo il caso della Bosnia-Erzegovina appare rispondere ad entrambi i requisiti. 
In Kosovo, invece, la politica statunitense resta quella di bombardare la Serbia senza rischiare un guerra di terra, mentre in Rwanda la fermezza dell’amministrazione Clinton nel non farsi coinvolgere resta tale, nonostante giungano le notizie sul genocidio. 
Appena differente è il caso dell’intervento statunitense in Somalia, realizzato per mettere fine alla guerra e alla carestia che imperversavano nel paese dal gennaio 1991. In questo caso, i miti da sfatare sono 2: 
1 − che i media abbiano dapprima costretto Clinton ad intervenire per risolvere l’emergenza umanitaria 
2 − e poi al disimpegno a causa del body-bag effect = quel sentimento contrario alla guerra suscitato dalla visione delle bare imbandierate dei militari caduti che vengono rispedite a casa dal fronte. 

In realtà, fino al 25 novembre 1992 (giorno in cui avvenne lo sbarco delle prime truppe statunitensi), l’attenzione dei media era stata piuttosto bassa. Solo dopo l’inizio dell’operazione Restore Hope i giornalisti si lanciano a capofitto a coprire la vicenda, aiutando a costruire consenso intorno all’intervento. 
Presto, però, la situazione sfugge al controllo: un autista somalo filma il cadavere di un ranger americano trascinato per le vie di Mogadiscio. Secondo il mito, sono queste immagini a costringere Clinton ad un precipitoso ritiro dalla Somalia. In realtà, la copertura mediatica della guerra dopo l’entusiasmo iniziale si era già ridotta a ben poca cosa e, soprattutto, pare che Clinton avesse già deciso il ritiro. 
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Il caso somalo prova più che altro quanto siano capaci i governi di manovrare i media, non il contrario. 
Le trasformazioni nelle strategie di gestione dell’informazione, già ravvisabili a partire dalla vicenda delle Falkland/Malvinas, trovano compimento nella guerra del Golfo del 1991. questa guerra, però, è un conflitto di un altro spessore, ed è qui che lo sforzo per creare un’inedita sinergia tra media e guerra raggiunge il suo apice. 
Per provare al mondo la validità dell’ordine americano è necessario lasciarsi alle spalle definitivamente i fantasmi del Vietnam; e poiché l’opinione comune è che il Vietnam sia stato perso a causa dei media, gestire l’informazione diviene un fattore di primaria importanza nella pianificazione della guerra. 
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L’attenzione per gli aspetti relativi all’informazione è rivolta a 2 obiettivi distinti, ma in forte relazione tra loro: 
1 1. assicurarsi il consenso dell’opinione pubblica interna 
2 2. fare in modo che la rappresentazione mediatica del conflitto sortisca l’effetto voluto = dimostrare senza sbavature la potenza e la capacità della macchina bellica statunitense. 

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L’USIA ha svolto un ruolo fondamentale in quest’opera: perché una coalizione si crei e si mantenga, deve essere nutrita di contenuti comuni e specifici, che aiutino le leadership nei rapporti con l’opinione pubblica. La necessità era quella di parlare all’estero con una voce sola e questa voce doveva essere sensibile alla prospettiva araba: l’appoggio dei paesi arabi era fondamentale per non far apparire la guerra come una forma di neocolonialismo. 

Tratto da I MEDIA E LA POLITICA INTERNAZIONALE di Elisa Bertacin
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