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La guerra raccontata dal cinema

A partire dal 1915 cominciano ad uscire i primi film ufficiali = commissionati direttamente dal governo, con lo scopo di favorire l’identificazione del pubblico a casa con le truppe al fronte. 
La ricerca del realismo raggiunge l’apice nei cinegiornali, su cui si incentrano maggiormente le strategie di propaganda. 
In ogni caso, comunque, la crudezza di immagini è sempre bilanciata da una generale descrizione della guerra come impresa epica e coraggiosa. 
Il mondo dei mass media conosce negli anni ’20 un’altra rivoluzione tecnologica: nel dopoguerra, dal telegrafo senza fili si sviluppa e si diffonde rapidamente un nuovo mezzo di comunicazione di massa: la radio, subito posta sotto il controllo, diretto o indiretto, dello stato. Solo negli USA diviene un’attività commerciale e si organizza in 3 grandi network privati: NBC, CBS ed ABC. 
Queste innovazioni si innestano in nuove realtà politiche: la nascita dell’Unione Sovietica e, sull’altra sponda, il fascismo e il nazismo aprono la strada ad un nuovo utilizzo dei mass media. 
L’esperienza della Prima Guerra Mondiale nel campo dell’informazione ha lasciato il segno: è opinione diffusa nella Germania degli anni ’20 che la sconfitta non sia avvenuta sul campo di battaglia, ma sul fronte interno per effetto della propaganda inglese ⇒ proprio considerando l’esperienza di guerra, Hitler pone le strategie di persuasione al centro dell’agire politico del partito nazional-socialista. 
La radio presenta le caratteristiche ideali per ricoprire il ruolo di principale mezzo di informazione nei nuovi regimi totalitari: 
1 − ha la capacità di parlare simultaneamente a milioni di individui, entrando direttamente nelle loro case 
2 − aggira il problema dell’analfabetizzazione delle masse 
1 − possiede una grande potenza comunicativa. 

È durante la Seconda Guerra Mondiale che la radio conosce il suo boom definitivo: una maggiore consapevolezza del ruolo della propaganda impedisce questa volta di sottovalutare il fattore comunicazione. 
Come è ovvio, nei regimi totalitari gli apparati di propaganda sono una realtà già consolidata. In Germania nel 1933 è stato fondato il Ministero per la Chiarezza pubblica e la propaganda, guidato da Goebbels ⇒ la stampa è rigidamente controllata, ma non quanto la radio: le trasmissioni straniere vengono costantemente monitorate per limitare la diffusione di false notizie da parte del nemico. 
I corrispondenti dei paesi neutrali vengono però questa volta incoraggiati con una serie di privilegi a lavorare a Berlino. 
Goebbels considera il cinema come il mezzo migliore per mostrare la potenza e l’efficacia della macchina bellica tedesca: l’unione di suoni e immagini può rendere meglio l’idea della supremazia germanica in campo militare, terrorizzando i nemici e rassicurando la popolazione in patria. 
I primi anni di guerra rendono il compito della propaganda tedesca piuttosto semplice: le rapide vittorie bastano a dissipare i profondi dubbi con cui il popolo tedesco aveva accolto l’inizio delle operazioni belliche. Ma, a partire dal 1943, la situazione cambia: arrivano le prime sconfitte ⇒ i cinegiornali cominciano a perdere di popolarità. 
Ancora una volta è la propaganda inglese il modello da imitare. Inizialmente, la guerra coglie impreparata la Gran Bretagna sul fronte propagandistico: in una prima fase, la gestione dell’informazione è confusa ⇒ la tendenza è quella di censurare tutte le notizie anche solo potenzialmente pericolose e nessun cameraman viene autorizzato ad accompagnare il corpo di spedizione inglese in Francia. 
Ma questo disorientamento iniziale viene presto superato. Il governo inglese, compresa l’importanza del mezzo radiofonico, decide di filtrare le informazioni disponibili e di revisionare i testi da trasmettere; e tuttavia viene lasciato un ampio margine di discrezionalità: tutti si rendono conto che la BBC può esercitare in modo più efficace il suo compito di propaganda se lasciata indipendente ⇒ è un brillante sistema di censura alla fonte, che può però esibire un volto di informazione libera e pluralista. Del resto, il motto del ministero dell’informazione inglese era “la verità, nient’altro che la verità e, se possibile, tutta la verità”. 
In tutti i paesi in guerra sono ancora una volta i cinegiornali a costituire il nocciolo duro della propaganda nelle sale cinematografiche ⇒ su di essi viene esercitato un controllo più incisivo: nascondere la propaganda all’interno di un prodotto apparentemente destinato allo svago, si rivela la scelta più efficace e ha il pregio di distrarre il pubblico dalle difficoltà della guerra. 
Nella considerazione che ad attirare il pubblico sono più i film di intrattenimento che i cinegiornali, il cinema commerciale acquisì un ruolo di primo piano, soprattutto negli USA, dove il governo fornì ad Hollywood una lista dei temi utili allo sforzo bellico. 
Durante la guerra si sviluppa anche un nuovo approccio alla diffusione di notizie: la propaganda nera = la fonte è difficilmente identificabile e l’ascoltatore non può riconoscere l’origine della trasmissione, né se sia amica o nemica ⇒ vengono messe in piedi numerose radio clandestine, allo scopo di diffondere informazioni false nel campo nemico. Le trasmissioni di propaganda nera sono estremamente difficili da confezionare: 
1 − devono utilizzare la lingua del paese cui sono dirette 
1 − devono convincere i destinatari della propria autenticità ⇒ la propaganda è infarcita di verità ricavate da prigionieri di guerra, disertori, spie ed intercettazioni. 

La guerra di Corea e la guerra in Vietnam costituiscono un vero e proprio spartiacque, in quanto le opinioni che oggi determinano le nostre aspettative sul ruolo dei giornalisti in guerra nascono in questo periodo: se i giornalisti durante le 2 guerre mondiali si erano posti, con poche eccezioni, completamente al servizio delle rispettive cause nazionali, nel coprire questi eventi si pongono su posizioni più distanti ed autonome dal potere politico. 
Inoltre, nel contesto della guerra fredda, la possibilità di un olocausto nucleare spinge l’opinione pubblica ad interessarsi a conflitti anche molto distanti. 
Negli USA, è l’apogeo del giornalismo “obiettivo”, i cui dogmi sono: 
1 − la separazione netta tra fatti ed opinioni 
2 − l’autonomia dal campo politico. 

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I giornalisti, dichiarandosi “obiettivi”, si ritagliano un ruolo preciso nella società e acquisiscono prestigio presso l’opinione pubblica. 
Tuttavia, “obiettività” è un termine ambiguo, che nasconde un rapporto più complesso che lega autorità e giornalisti: in cambio di riconoscimento del proprio ruolo e della propria autonomia, i giornalisti garantiscono alle autorità un accesso privilegiato al palcoscenico mediatico e un giornalismo responsabile ed equilibrato. 
La minore identificazione dei giornalisti con le truppe americane dipende, però, anche da un altro elemento: Corea e Vietnam rappresentano, almeno dal punto di vista occidentale, guerre limitate = conflitti in cui i belligeranti riducono i propri obiettivi entro confini ben definiti e in cui non è necessario l’impiego di tutta la potenza militare. 
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1 − I governi hanno maggiore difficoltà nell’imporre restrizioni alla libertà di informazione all’interno dei confini nazionali, così come è più difficile giustificare misure di censura e limitazioni dell’accesso dei giornalisti al fronte. 
2 − L’opinione pubblica è meno pronta a sacrificare il proprio diritto ad essere informata, perché ne scorge meno la necessità. 
3 − I corrispondenti sono meno propensi a farsi coinvolgere completamente nella causa nazionale e più raramente si riferiscono alla guerra come alla “nostra guerra”. 

Dal punto di vista mediatico, la guerra di Corea è il primo conflitto ad essere raccontato anche attraverso la televisione, sebbene il nuovo mezzo non abbia ancora raggiunto la sua maturità: l’intervallo tra le riprese e la loro messa in onda è ancora troppo lungo ⇒ la stampa resta ancora la più importante fonte di informazione per l’opinione pubblica. 
La Corea è anche il primo conflitto limitato e per di più condotto sotto la bandiera delle Nazioni Unite ⇒ in tale contesto, gli USA hanno difficoltà a imporre misure di censura nei confronti dei giornalisti provenienti dai diversi paesi. 
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Senza restrizioni significative, i giornalisti tradiscono le aspettative delle autorità: in un conflitto limitato, infatti, non si attiva immediatamente il rally around the flag = la tendenza dei media a stringersi attorno alla bandiera nei momenti difficili ⇒ dalla copertura mediatica emergono le gravi carenze nella condizione e nell’organizzazione delle truppe ONU, insieme alle sconfitte e a una diffusa sfiducia nelle sorti e negli obiettivi del conflitto. 
NB: non sono critiche all’opportunità di intervento, ma al modo in cui viene condotto. 
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I mass media vengono accusati di essere di conforto al nemico e di danneggiare la causa della guerra e, nonostante l’assenza di censura, i giornalisti rischiano di essere portati davanti alla corte marziale ⇒ sono gli stessi corrispondenti a chiedere alle autorità militari l’istituzione di precise misure di controllo dell’informazione: da questo momento, la copertura mediatica torna agli standard delle guerre mondiali e le tensioni si vanno raffreddando. 

Tratto da I MEDIA E LA POLITICA INTERNAZIONALE di Elisa Bertacin
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