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Le nuove guerre e i media

Parlare di “nuove guerre” non significa sostenere che tutte le guerre contemporanee siano analoghe per cause, scopi, forme, né che tutte le guerre siano necessariamente “nuove”. 
Per definire la nuova arte della guerra possiamo oggi riferirci a 2 dimensioni strettamente intrecciate: 
1 1. le trasformazioni tecno-strategiche che consentono ai nuovi conflitti di essere facilmente metabolizzati dalle società occidentali, in quanto producono poche perdite tra le proprie truppe ⇒ non comportano rotture o contraccolpi sociali. 
Con la fine della Guerra Fredda, si impone per gli USA una trasformazione dei metodi tradizionali del warfare e una sua accelerazione, grazie soprattutto alla nuova elaborazione strategica = nessun altro stato avrebbe dovuto competere con loro sul piano militare (sia convenzionale sia nucleare). È da questo presupposto che Metz, nel 1997, ha proposto la teoria della guerra asimmetrica = conflitto in cui una parte dotata di forza schiacciante (idea della superiorità assoluta, costruita sull’altissimo livello tecnologico di cui godono gli USA ⇒ chi muove guerra è sicuro di vincere velocemente e facilmente) cerca di distruggere un avversario infinitamente più debole, che combatte in modo non convenzionale e “scorretto” (l’avversario si muove in modo diverso, senza un centro, ma moltiplicando sul territorio le proprie cellule, che si muovono a sworming = circondano il nemico come fanno le api, anche utilizzando i mezzi di comunicazione, in quella che viene definita netwar). 
La concezione della guerra asimmetrica è collegata anche alla concezione della guerra a zero morti: dietro tale superiorità tecnologica riemerge però l’antica sindrome del Vietnam = dal momento che la sconfitta viene dipinta come pressoché impossibile, il timore delle vittime ritorna prepotentemente nella mente dei decision making. 
Oltre alla teoria di Metz, si diffonde anche il concetto di RMA (Revolution in Military Affair), teorizzata da Andrew Marshall: è la cosiddetta trasformazione = (dalla definizione di Joxe) l’applicazione della rivoluzione elettronica agli armamenti, alla logistica e alla comunicazione militare ⇒ l’idea fondamentale è che gli Usa dovrebbero approfittare dell’indiscusso vantaggio tecnologico per trasformare il modo di fare la guerra: la guerra deve abbandonare lo schema del duello, per perseguire una superiorità assoluta, basata sull’impiego di armi sofisticate, “intelligenti” e di straordinaria efficacia. Il nucleo strategico della RMA è essenzialmente costituito dall’impiego delle nuove tecnologie informatiche, comunicative e robotiche nei settori militari in cui l’elemento umano è sempre stato preponderante, ossia nella raccolta di informazioni sul terreno (principio dell’information dominance) e nel combattimento (principio dell’air power). 
2. dimensione culturale, relativa ad una guerra che appare in qualche modo secolarizzata e che non comporta una rottura simbolica, sociale e temporale con la pace. Dopo la fine del bipolarismo Est-Ovest, il concetto di guerra, sembra essersi diluito e sfuocato 
0 − nel tempo = non è possibile circoscrivere i limiti cronologici delle guerre, fissarne cioè l’inizio e la fine ⇒ si potrebbe affermare che la guerra in Iraq è iniziata nel 1991 sotto Bush padre, è stata sospesa e congelata con l’embargo sotto Clinton, per riprendere sotto Bush junior. 
1 − nello spazio = la guerra non è più una violenza indirizzata verso l’esterno, né chiaramente distinta dall’azione di polizia, diretta verso l’interno. 
2 È la formula della guerra globale permanente, in cui la guerra assume la forma di spedizioni punitive, i cui obiettivi, anche se espressamente dichiarati, sono comunque poco chiari. 
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È una guerra che mette in crisi il diritto internazionale, ma anche le classiche distinzioni del linguaggio politico, sulle quali si è sempre fondata ogni parvenza di diritto bellico, coppie interpretative come civile-militare, interno-esterno e, soprattutto, guerra-pace. 
Nel campo mediatico, quello che si sviluppa dopo la fine della Guerra Fredda, è un nuovo paradigma nella rappresentazione della guerra: si verificano guerre in diretta, dalla copertura totale in quanto media event: il mezzo televisivo ha imposto la propria modalità narrativa ed estetica, costruendo una cronaca teatralizzata, che presenta veri e propri personaggi (si ha la contrapposizione tra l’eroe e il nemico), eventi straordinari, piuttosto che le tendenze di fondo derivanti dal contesto storico e politico, rappresentando ogni azione militare nei termini di un videogame. 
I media tendono ad interpretare le nuove guerre come conflitti etnici = il frutto di odii atavici tra etnie differenti ⇒ le crisi internazionali vengono depoliticizzate e spiegate sulla base di fattori culturali ⇒ la precisa responsabilità politica dei gruppi che organizzano intenzionalmente le nuove guerre scompare nella descrizione di un ritorno al primitivo e all’anarchia. L’effetto di una simile copertura mediatica può essere quello di spingere i mezzi di comunicazione a rivolgere lo sguardo altrove, spostandosi su altre questioni ritenute “più attuali”. È anche per questo che alcune guerre divengono “guerre dimenticate” = se una crisi appare endemica, non la si può risolvere ⇒ la si deve accettare e passare ad altro. 
La copertura mediatica è perfettamente in linea con l’incertezza dei governi occidentali nel gestire queste situazioni. Una volta definito un conflitto come “etnico”, non ha senso intervenire con una soluzione politica: bisogna invece optare per azioni semplicemente tecniche. Quando si decide di agire, l’intervento è comunque motivato dalla retorica umanitaria dei media e dallo spettacolo del dolore. 
Questa rappresentazione ha come parallelo politico l’intervento umanitario, il cui unico scopo è alleviare le sofferenze delle popolazioni civili coinvolte. 
MA è anche un’interpretazione che giova a coloro che, come le élite hutu del Rwanda e i leader serbi e croati, sono direttamente coinvolti nei teatri di guerra e rinforzano e strumentalizzano le divisioni identitarie per raggiungere i propri obiettivi politici. 
Tuttavia, se i mass media internazionali cadono nell’errore di perpetuare e rafforzare le divisioni etniche, ad attivarle ci pensa la propaganda orchestrata sul campo anche attraverso il controllo e la complicità dei media locali: il genocidio in Rwanda e la guerra in Bosnia-Erzegovina non scoppiano all’improvviso a causa di odii tribali, bensì sono il risultato di diversi mesi di propaganda resa a creare separazione là dove prima esisteva convivenza, anche se travagliata. I media, infatti, possono infondere un senso di vittimizzazione e di panico nella popolazione, suscitando la sensazione di essere sotto una minaccia incombente; a questo scopo vengono ripescati episodi anche molto indietro nel passato ⇒ la realtà in cui si vive viene profondamente alterata. 

Tratto da I MEDIA E LA POLITICA INTERNAZIONALE di Elisa Bertacin
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