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Televisione e democratizzazione in Medio Oriente

È possibile sostenere che un medium come la televisione commerciale possa rappresentare uno strumento di democratizzazione per l’area mediorientale? 
La differenza centrale rispetto al mondo occidentale è quella che la televisione market oriented arriva in quasi tutti i paesi arabi prima della democrazia, prima di una vera libertà di manifestazione del pensiero ⇒ il mercato spinge nella direzione delle richieste del pubblico, che sono esigenze di accesso attivo ad un dibattito politico pubblico e di partecipazione alle decisioni che riguardano il futuro della regione ⇒ il mercato diviene il soggetto che si fa portavoce delle istanze democratizzatici della società civile. 
Non possiamo altresì prescindere dal fatto che nel mondo arabo l’informazione della carta stampata e della televisione via etere è stata fino a poco tempo fa prevalentemente disinformazione, costruita sotto il controllo ferreo dei ministeri dell’Informazione e con lo scopo malcelato di impedire qualsiasi azione politica, piuttosto che favorirla. 
Naturalmente ci sono altri media che, ancora più della televisione satellitare, possono essere considerati per il mondo arabo “esperimenti di democrazia mediale”: è il caso dei forum on line, delle chat room o dei blog ma, rispetto al pubblico della televisione, questi strumenti coinvolgono ancora un numero di persone molto limitato. 
L’apertura di spazi di dibattito libero come frutto di scelte commerciali e non come frutto di leggi democratiche e in grado di garantire libertà di manifestazione del pensiero, desta naturalmente anche timori e perplessità: anche all’interno del mondo arabo, infatti, ci sono analisti che tacciano Al Jazeera di irresponsabilità, considerando l’aumento di accesso all’informazione inefficace e strumentale; essi descrivono il sistema dei media arabi come già sulla strada verso il modello americano = “per impedire alla gente di vedere, si mostra troppo”. 
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Queste analisi mettono in guardia da un’eccessiva fiducia nella possibilità di svolte democratiche reali nel breve periodo e mostrano i limiti di un dibattito pubblico che nasce sugli schermi della televisione commerciale. 
Molti osservatori affermano che sarebbe eccessivamente ottimistico concludere che medium come Al Jazeera possano influenzare la natura del sistema politico nel mondo arabo. Tuttavia, il lavoro dei broadcaster transnazionali è potenzialmente molto importante: infatti, essi riescono a bypassare i controlli governativi, liberandosi dall’agenda politica dei governi e creandone una nuova, transnazionale e più libera. Ma, come la situazione occidentale dimostra, i politici possono apprendere tecniche di relazione con l’opinione pubblica maggiormente sofisticate per parlare a televisioni “libere”, giustificando tutte le proprie azioni ⇒ il mondo arabo si trova di fronte ad un passaggio davvero delicato, in cui le televisioni satellitari possono essere un’arma a doppio taglio: 
1 − da un lato, possono rappresentare il preludio alla concessione di reali diritti democratici, ma 
2 − d’altra parte, possono servire a leader arabi un po’ più scaltri come valvola di sfogo del malcontento popolare ⇒ la televisione potrebbe distrarre dalla necessità della richiesta di potere di autodeterminazione. 

Secondo alcuni autorevoli osservatori, l’attuale situazione sarebbe il preludio della fine del sistema di censura nel mondo arabo: i leader, infatti, sarebbero ormai sul punto di abolire i ministeri dell’Informazione, perché questo rappresenterebbe l’unico modo per non perdere credibilità agli occhi delle proprie popolazioni. 
Tuttavia, alcuni elementi devono metterci in guardia da un eccessivo ottimismo: sarebbe ingenuo credere che il mondo arabo dell’informazione stia entrando nell’era della libertà assoluta d’informazione: la relazione tra il governo del Qatar e la redazione di Al Jazeera, ufficialmente dipinta come di assoluta indipendenza, ha mostrato in alcune occasioni ben altra natura: ad esempio, negli ultimi tempi sono stati effettuati alcuni riposizionamenti in ambito redazionale, che sembrerebbero rispondere a indicazioni del governo del Qatar ⇒ è assai probabile che questa scelta rappresenti il tentativo da parte della proprietà di ridurre il fastidio del prezioso alleato statunitense per le coperture dell’emittente dagli scenari di “guerra al terrorismo”. 
Anche Al Jazeera International, il nuovo canale all news in lingua inglese, non dovrebbe costituire un elemento destabilizzante nel mercato globale dei media. Il suo obiettivo principale sembra più che altro quello di offrire un prodotto di alta qualità, alternativo al monopolio americano, che possa creare un rapporto di fiducia tra il brand Al Jazeera e il pubblico anglofono, così da ridimensionare la percezione di Al Jazeera come “emittente canaglia” ⇒ avvantaggiando indubbiamente l’immagine del Qatar. 
Nuovo asse della diplomazia culturale dell’emirato è la Qatar Foundation for Education, Science and Community Development, la cui mission è quella di fare dell’emirato il centro regionale d’eccellenza nell’educazione e nella ricerca ⇒ attirare i giovani della regione, soprattutto attraverso una politica di partnership con prestigiose università occidentali, invitate ad aprire un dipartimento e a inviare docenti nel Golfo. Anche questa operazione trova nella televisione satellitare uno dei suoi momenti di massima visibilità: la Qatar Foundation, infatti, produce e sponsorizza la serie The Doha Debates, trasmessa mensilmente dal colosso BBC World. 
La relazione tra media occidentali e media arabi si sta mostrando un “dialogo tra sordi”, fatto di accuse reciproche di faziosità e irresponsabilità nella copertura delle vicende internazionali. 
Bisogna pensare al giornalismo come “prodotto culturale” e questo è di fondamentale importanza, sia nell’approccio al giornalismo occidentale sia in quello al giornalismo degli “altri”. Il modus operandi delle redazioni di Al Jazeera e Al Arabiya è del tutto analogo, nel bene e nel male, a quello delle redazioni occidentali; ciò che cambia sono i parametri nell’attribuzione dei valori-notizia = l’importanza, anche in termini di “vendibilità”, attribuita agli avvenimenti. 
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La pretesa di verità dell’informazione è il frutto della mancata percezione del relativismo culturale, che inevitabilmente porta ad una differente e parziale lettura del medesimo episodio; una parzialità che è dovuta prima di tutto a differenze nel destinatario di riferimento della notizia, nelle rappresentazioni del mondo che pubblico e giornalisti condividono e nelle strategie di impresa adottate ⇒ il giornalismo ha il potere di costruire la realtà negoziandone il senso con il proprio pubblico. Tuttavia, questo processo è viziato da un’inevitabile parzialità, che diventa pericolosa nel momento in cui il racconto giornalistico si occupa di eventi politici globali facilmente sfocianti in pericolosi conflitti simbolici. 
Le news organization arabe si trovano, nell’attuale situazione internazionale, in una condizione di vantaggio rispetto alle altre fonti d’informazione transnazionale: il fatto che lo scacchiere mediorientale sia attualmente il punto più caldo del globo, mette i giornalisti arabi nella possibilità di sfruttare la conoscenza approfondita della propria regione, le competenze linguistiche, ma soprattutto la fiducia delle popolazioni locali. 
Nel corso del conflitto in Afghanistan del 2001, la troupe di Al Jazeera è stata l’unica a ricevere l’autorizzazione di trasmettere dal territorio controllato dai Taliban dove, già dal 1999, l’emittente qatarense aveva un ufficio di corrispondenza. Le esclusive rappresentano il successo giornalistico per eccellenza e le emittenti satellitari arabe hanno offerto, nel corso degli ultimi conflitti, coperture esclusive di livello e valore giornalistico davvero alto. 
In questo discorso tuttavia rientra anche la spinosa questione della trasmissione dei messaggi audio e video delle organizzazioni terroristiche di matrice islamica: essa si è aperta nell’ottobre del 2001 con i primi comunicati di bin Laden, per poi intensificarsi nel 2003, dopo l’occupazione alleata dell’Iraq e l’inizio della strategia dei sequestri e degli assassinii. Le critiche delle autorità e dei media occidentali sono state molto dure, spingendosi fino all’accusa di deliberata collaborazione con il terrorismo. 
In questo caso, è davvero difficile stabilire dove finisce il diritto di cronaca (= la legittima possibilità per una news organization di sfruttare i vantaggi derivanti dalla trasmissione di immagini in esclusiva) e dove inizia il sostegno (anche come semplice amplificatore) di organizzazioni criminali. Certo è che le organizzazioni terroristiche mostrano di conoscere bene questo principio e inviano i propri messaggi a destinatari diversi, in modo da accrescere la voglia di esclusiva e sfruttarla per tenere in scacco i governi occidentali. 
Dal canto suo, Al Jazeera, continuamente sotto processo con l’accusa di incitamento alla violenza e compiaciuta ricerca di immagini cruente, sta dandosi da fare per convincere i colleghi occidentali della professionalità delle proprie coperture. Ne è prova l’Al Jazeera World Forum, organizzato a Doha nell’estate 2004, con lo scopo di promuovere una discussione globale intorno agli attuali doveri della professione giornalistica e opportunità per presentare il nuovo Codice etico dell’emittente. 
Al Jazeera investe tantissimo nel lavoro di autopromozione e nella costruzione della propria immagine di rete. L’identità di una testata è affidata in larga parte ai suoi giornalisti. I giornalisti di Al Jazeera si distinguono tutti per uno stile molto combattivo, stile che rappresenta appieno l’immagine che la testata vuole dare di sé. 
Rispetto alla concorrente qatarense, Al Arabiya lavora molto meno su spot volti ad autopromuovere la testata, probabilmente perché non è stata la prima ad inaugurare la nuova stagione del giornalismo arabo ⇒ non può contare sul fatto che il proprio marchio sia di per sé garanzia di qualità agli occhi del pubblico. L’impressione che si ha di Al Arabiya è quella di un’emittente molto attenta alla gente, ma meno desiderosa di trovare a tutti i costi le responsabilità dei governi arabi nei problemi delle popolazioni mediorientali. Ma, considerati gli interessi dei finanziatori che stanno dietro il progetto Al Arabiya (= uomini vicini alla casa regnante saudita, desiderosa di stabilità interna per i paesi del Golfo) è facile comprendere il perché di una scelta di questo tipo. 
Molti studiosi hanno teorizzato come il flusso di informazioni transnazionali si sia sviluppato a senso unico, controllato dalle grandi agenzie dell’informazione occidentale e prodotto secondo modelli culturali assolutamente occidentali e in prevalenza statunitensi. La causa fondamentale di questa situazione è stata soprattutto la mancanza di produzione di news attendibili prodotte da organizzazioni arabe ⇒ una situazione di questo tipo ha avvantaggiato notevolmente l’Occidente, soprattutto nel momento in cui conflitti coinvolgevano paesi arabi e paesi occidentali, come nel caso della Guerra del Golfo del 1991, poiché i governi potevano contare su media dell’informazione che facevano riferimento a rappresentazioni del conflitto pensate per un pubblico occidentale. 
Con l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 e la guerra in Afghanistan del 2002 è stato chiaro come la situazione fosse cambiata profondamente: la guerra in Afghanistan è stata raccontata e soprattutto filmata da 2 prospettive diverse: il racconto che arrivava agli spettatori di tutto il mondo non era soltanto il risultato del lavoro dei giornalisti occidentali al seguito delle truppe anglo-americane, ma, inevitabilmente, anche delle immagini e dei servizi dei corrispondenti di Al Jazeera dai territori controllati dai Taliban, ripresi dalle televisioni di tutto il mondo. 
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Quella creata da Al Jazeera e Al Arabiya è una situazione del tutto nuova per la gestione dell’immagine americana nel mondo arabo: i diplomatici statunitensi hanno potenzialmente tanto spazio quanto chi sostiene tesi opposte alle loro per convincere le popolazioni arabe. La tesi secondo cui gli USA, per vincere la “battaglia dei cuori e delle menti” nel mondo arabo, dovrebbero limitarsi a liquidare questo fenomeno come una forma più sofisticata della vecchia propaganda dei regimi arabi, cui rispondere con una forma analoga, è poco convincente e non sembra funzionare granché. 
In più, il pubblico ha a disposizione immagini e testimonianze dirette dei danni collaterali dell’esportazione della democrazia ⇒ i diplomatici, nello scenario della globalizzazione della politica, devono investire molta più energia nella costruzione del soft power, soprattutto nella relazione con le popolazioni arabe che si sentono oggi più che mai date per scontate. Il governo statunitense dovrebbe cogliere le potenzialità rappresentate dai talk show e dai programmi di approfondimento delle televisioni satellitari come territorio per far agire il proprio soft power, piuttosto che fare affidamento su operazioni tipo Al Hurra e su campagne di pubbliche relazioni attraverso media occidentali e americani. 
Secondo molti osservatori della geopolitica mediorientale, il governo americano avrebbe dovuto, fin dall’inizio dell’operazione Enduring Freedom, prestare più attenzione alla media diplomacy che alla (fallimentare) public diplomacy, impostando in maniera diversa il rapporto con le televisioni satellitari. Unitamente alla campagna militare, infatti, il governo americano ha lanciato una serie di operazioni di public diplomacy, per tentare di migliorare la propria immagine tra le popolazioni arabe. Il taglio scelto è stato quello del marketing commerciale = “vendere” l’America alle popolazioni arabe: l’assunzione di Charlotte Beers (famosa per il lancio di diversi prodotti commerciali) come sottosegretario per la public diplomacy testimonia chiaramente una scelta di questo tipo. 
Lo Shared Value Iniziative del 2001 avrebbe dovuto essere il primo grande passo per persuadere le popolazioni arabe che la guerra in atto non era da intendersi contro la cultura islamica, ma contro il terrorismo. Tuttavia, la campagna si è rivelata completamente inefficace. 
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L’amministrazione Bush si è mossa su un altro fronte: l’informazione in lingua araba: 
1 − nel 2002 è stata lanciata Radio Sawa = emittente che utilizza la musica pop come “cavallo di Troia” per la penetrazione di notiziari in arabo, rivolti prevalentemente alle giovani generazioni. Questa emittente è presentata come un grande successo di ascolti, ma gli osservatori nel mondo arabo sostengono che i giovani si limitano all’ascolto della musica pop, di fatto ignorando l’agenda americana proposta nei notiziari. 
2 − nel 2004 ha iniziato le sue trasmissioni la televisione satellitare all news Al Hurra. Questa operazione avrebbe lo scopo di “rubare” le audience arabe agli schermi di Al Jazeera e Al Arabiya, attraverso un prodotto informativo maggiormente conciliante nei confronti delle politiche di importazione della libertà statunitensi. Tuttavia, pur avendo ottenuto un discreto successo di pubblico nei primi mesi di trasmissione, Al Hurra stenterebbe a guadagnarsi credibilità, poiché percepita come voce parziale dell’imperialismo americano. Ciò che gli opinionisti e i massmediologi arabi rimproverano maggiormente all’operazione Al Hurra è la sua pretesa di proporsi come medium di riferimento per l’informazione nel mondo arabo, senza però misurarsi realmente con la richiesta del pubblico. 

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Non si tratta di vendere il marchio USA e neppure di offrire informazioni sulla politica mediorientale statunitense, ma di recuperare credibilità, si tratterebbe di investire maggiormente sulla media diplomacy ⇒ accettare situazioni di dialogo e confronto su media che, se non si dimostrano eccessivamente compiacenti nei confronti della politica statunitense, hanno comunque la preziosa caratteristica di essere considerati credibili dall’interlocutore arabo. 
1 1. Il primo passo è quello di utilizzare canali attendibili per il proprio target, come le televisioni satellitari arabe. 
2 2. Il secondo passo è quello di cercare di utilizzare artifici retorici e modalità gestuali convincenti, secondo i canoni dell’espressività araba. 

Questi aspetti sono di vitale importanza per il soft power americano nel mondo arabo, perché il nemico numero 1 degli USA, Osama bin Laden, mostra di conoscere bene le dinamiche che possono rendere efficace una performance televisiva per il pubblico arabo ⇒ i politici americani dovrebbero prestare attenzione sia ai canali di comunicazione che utilizzano per veicolare i loro messaggi, sia al modo in cui questi canali sono percepiti nel mondo arabo, sia allo stile che usano nei confronti delle popolazioni arabe. 

Tratto da I MEDIA E LA POLITICA INTERNAZIONALE di Elisa Bertacin
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