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Gli effetti delle sentenze 348 e 349 del 2007 della Corte Costituzionale

E’ bene, a questo punto, precisare la situazione introdotta a seguito delle citate sentenze 348 e 349 del 2007:
- A seguito della sentenza 348/2007, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art.5-bis, ai commi 1 e 2, della legge 359/1992, va applicato per le aree edificabili il criterio del valore venale, non potendo che essere riutilizzato il vecchio art. 39 della legge 2359/1865.
Il problema del regime transitorio che si pone dopo la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 5-bis del decreto legge 333/1992 va risolto in questo modo: riguardo a giudizi di determinazione dell’indennità pendenti in Cassazione alla data di pubblicazione della sentenza 348/2007, non ci si può riferire al criterio stabilito da quella norma ma, nell’attesa di un eventuale intervento legislativo, dovrà essere utilizzato il criterio del valore venale.

La sentenza 348/2007

Di seguito alcuni passaggi rilevanti della sentenza 348/2007: “È illegittimo il meccanismo di risarcimento, connesso alle espropriazioni di pubblica utilità, che prevede un indennizzo pari alla media del valore di mercato del bene e del reddito dominicale rivalutato riferito all’ultimo decennio con un’ulteriore sottrazione (per chi non dispone volontariamente la cessione del bene) del 40 per cento. Le disposizioni censurate contrastano con l’articolo 117 della Costituzione che prevede limiti ai poteri legislativi dello Stato per effetto degli obblighi assunti in sede internazionale quali la Convenzione europea dei diritti dell’uomo così come interpretata dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo”.

E' costituzionalmente illegittimo, per violazione dell'art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all'art. 1 del primo Protocollo della CEDU, nella interpretazione ad esso data dalla Corte di Strasburgo, l'art. 5- bis del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333”.Premesso che l'indennizzo cui lo Stato è tenuto in caso di espropriazione non può ritenersi legittimo se non consiste in una somma che si ponga in rapporto ragionevole con il valore del bene, la norma censurata - la quale, con una disciplina originariamente introdotta in via transitoria, ma che ha perso tale sua caratteristica a seguito della sua riproduzione nel testo unico di cui al d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, prevede un'indennità oscillante, nella pratica, tra il 50 e il 30 per cento del valore di mercato del bene ed ulteriormente ridotta dall'imposizione fiscale - risulta priva di un «ragionevole legame» con il valore venale del bene, e quindi inidonea ad assicurare anche quel «serio ristoro» richiesto dalla giurisprudenza consolidata della Corte costituzionale, risultando praticamente vanificato l'oggetto del diritto di proprietà”.
- A seguito della sentenza 349/2007, che ha dichiarato illegittimo l’art. 5-bis del decreto legge 333/1992, nella parte in cui non prevede “un ristoro integrale del danno subito per effetto dell’occupazione acquisitiva da parte della pubblica amministrazione, corrispondente al valore di mercato del bene occupato”, nel caso di domanda di risarcimento del danno derivante da c.d. occupazione acquisitiva, richiesta da un privato nei confronti della pubblica amministrazione, al fine di ottenere l’indennizzo per l’espropriazione subita, il danno deve essere calcolato sulla base del valore di mercato dell’area interessata dall’occupazione.

La sentenza 349/2007

Di seguito alcuni punti significativi della sentenza 349/2007: “In mancanza di una specifica previsione costituzionale, le disposizioni della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), rese esecutive nell'ordinamento interno con legge ordinaria, ne acquistano il rango e quindi non si collocano a livello costituzionale, dovendosi altresì escludere che esse possano avere diretta efficacia nell'ordinamento interno in forza dell'art. 10, primo comma, Cost., il quale sancisce l'adeguamento automatico dell'ordinamento interno alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute e concerne esclusivamente i principi generali e le norme di carattere consuetudinario, ma non comprende le norme contenute in accordi internazionali che non riproducano principi o norme consuetudinarie del diritto internazionale; ovvero dell'art. 10, secondo comma, Cost., il quale fa riferimento a ben identificati accordi, concernenti la condizione giuridica dello straniero, ovvero ancora in forza dell'art. 11 Cost., non essendo individuabile, con riferimento alle specifiche norme convenzionali CEDU, alcuna limitazione della sovranità nazionale e non potendosi considerare i diritti fondamentali una "materia" in relazione alla quale sia allo stato ipotizzabile, oltre che un'attribuzione di competenza limitata all'interpretazione della Convenzione, anche una cessione di sovranità”.
L'applicabilità delle disposizioni della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) nell'ordinamento interno non può trovare fondamento neanche in via indiretta nell'art. 11 Cost., per effetto della qualificazione, da parte della Corte di giustizia della Comunità europea, dei diritti fondamentali oggetto di disposizioni della CEDU come principi generali del diritto comunitario.
Né la eventuale incompatibilità della norma interna con la norma della CEDU può trovare rimedio nella semplice non applicazione da parte del giudice comune, in quanto, allo stato, nessun elemento relativo alla struttura e agli obiettivi della CEDU ovvero ai caratteri di determinate norme consente di ritenere che la posizione giuridica dei singoli possa esserne direttamente e immediatamente tributaria, indipendentemente dal diaframma normativo dei rispettivi Stati di appartenenza, fino al punto da consentire al giudice la non applicazione della norma interna confliggente, dovendosi anzi rilevare che le stesse sentenze della Corte di Strasburgo, anche quando è il singolo ad attivare il controllo giurisdizionale nei confronti del proprio Stato di appartenenza, si rivolgono allo Stato membro legislatore e da questo pretendono un determinato comportamento”.

In base all'art. 117, primo comma, Cost., come modificato dall'art. 2 l. cost. 18 ottobre 2001 n. 3, non può attribuirsi rango costituzionale alle norme contenute in accordi internazionali, oggetto di una legge ordinaria di adattamento, derivando dallo stesso l'obbligo del legislatore ordinario di rispettare le norme poste dai trattati e dalle convenzioni internazionali - e tra queste la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), alla quale deve riconoscersi una peculiare rilevanza in considerazione del suo contenuto -, con la conseguenza che la norma nazionale incompatibile con la norma della CEDU, e dunque con gli "obblighi internazionali" di cui all'art. 117, primo comma, viola per ciò stesso tale parametro costituzionale, che realizza un rinvio mobile alla norma convenzionale di volta in volta conferente, la quale dà vita e contenuto a quegli obblighi internazionali genericamente evocati. Ne consegue che al giudice comune spetta interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme e qualora ciò non sia possibile, ovvero qualora dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale 'interposta', proporre la relativa questione di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell'art. 117, primo comma, Cost.”.
Premesso che la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) presenta, rispetto alla generalità degli accordi internazionali, la peculiarità consistente in ciò che, pur essendo l'applicazione e l'interpretazione del sistema di norme da essa previsto attribuite in prima battuta ai giudici degli Stati membri, la definitiva uniformità di applicazione è invece garantita dall'interpretazione centralizzata della CEDU attribuita alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui spetta la parola ultima e la cui competenza «si estende a tutte le questioni concernenti l'interpretazione e l'applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli che siano sottoposte ad essa nelle condizioni previste» dalla medesima, il giudice comune deve interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme e, qualora ciò non sia possibile, ovvero dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale 'interposta', deve proporre la relativa questione di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell'art. 117, primo comma, Cost. In tal caso, la Corte costituzionale, deve accertare la sussistenza del denunciato contrasto e, in caso affermativo, verificare se le stesse norme CEDU, nell'interpretazione data dalla Corte di Strasburgo, garantiscono una tutela dei diritti fondamentali almeno equivalente al livello garantito dalla Costituzione italiana, senza che ciò comporti un sindacato sull'interpretazione della norma CEDU operata dalla Corte di Strasburgo, ma solo verificando la compatibilità della norma CEDU, nell'interpretazione del giudice cui tale compito è stato espressamente attribuito dagli Stati membri, con le pertinenti norme della Costituzione, così risultando realizzato un corretto bilanciamento tra l'esigenza di garantire il rispetto degli obblighi internazionali voluto dalla Costituzione e quella di evitare che ciò possa comportare per altro verso un vulnus alla Costituzione stessa”.
E' costituzionalmente illegittimo l'art. 5- bis , comma 7- bis , d.l. 11 luglio 1992 n. 333. Premesso che i giudici a quibus non pongono il problema della compatibilità dell'istituto dell'occupazione acquisitiva in quanto tale con l'art. 1 del Protocollo addizionale della CEDU, nell'interpretazione offertane dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, ma censurano la norma denunciata esclusivamente nella parte in cui ne disciplina la ricaduta patrimoniale e premesso altresì che nella giurisprudenza della Corte europea è ormai costante l'affermazione secondo la quale il risarcimento del danno deve essere integrale e comprensivo di rivalutazione monetaria a far tempo dal provvedimento illegittimo e la liquidazione del danno per l'occupazione acquisitiva stabilita in misura superiore a quella stabilita per l'indennità di espropriazione, ma in una percentuale non apprezzabilmente significativa, non permette di escludere la violazione del diritto di proprietà, così come è garantito dalla norma convenzionale, la norma censurata, la quale dispone che «In caso di occupazioni illegittime di suoli per causa di pubblica utilità, intervenute anteriormente al 30 settembre 1996, si applicano, per la liquidazione del danno, i criteri di determinazione dell'indennità di cui al comma 1, con esclusione della riduzione del 40 per cento. In tal caso l'importo del risarcimento è altresì aumentato del 10 per cento. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche ai procedimenti in corso non definiti con sentenza passata in giudicato», non prevedendo un ristoro integrale del danno subito per effetto dell'occupazione acquisitiva da parte della pubblica amministrazione, corrispondente al valore di mercato del bene occupato, si pone in contrasto con gli obblighi internazionali sanciti dall'art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, il quale non è in contrasto con le conferenti norme della Costituzione italiana, e per ciò stesso viola l'art. 117, primo comma, della Costituzione”.

Una svolta fondamentale

Le due sentenze analizzate rappresentano una svolta fondamentale, non solo per l’oggetto su cui si pronunciano, vale a dire la disciplina del calcolo dell’indennità in caso di espropriazione forzata, disciplina delicata la quale ha subito numerosi mutamenti nel tempo, ma anche per il diverso rapporto che esse delineano tra la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e l’ordinamento interno.
Riguardo al problema dell’indennità di espropriazione di suoli edificatori, rimane al legislatore il compito di definire quale sia il serio ristoro, sapendo ora che il valore venale del bene costituisce un necessario parametro di riferimento.
Nessuno spazio è dunque lasciato all’interprete o al legislatore per discostarsi, nel calcolare il risarcimento del danno, dal valore di mercato.
Dal punto di vista dei rapporti tra Convenzione europea dei diritti dell’uomo e ordinamento interno sembrano possibili nuovi cambiamenti, soprattutto se dovesse essere approvato il recente Progetto che modifica il Trattato dell’Unione europea e il Trattato istitutivo della Comunità europea, nel quale è previsto che l'Unione europea aderisca alla Convenzione europea.
In quel caso, la Convenzione acquisterà efficacia diretta nel nostro ordinamento interno. Resta comunque la necessità di un intervento da parte del legislatore diretto a colmare il vuoto legislativo, per evitare di dover adottare altre soluzioni tampone. Infatti, oltre all’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo, e quindi dalla CEDU, ed oltre all’art. 834 cc (in cui si parla di “giusta indennità”), pochi criteri sono rimasti per calcolare l’indennizzo in questo periodo di vuoto normativo.
Tra essi vi è, ad esempio, l’art. 16 comma 1 del D. Lgsl. 504/1992 (che ha istituito l’ICI), secondo il quale: “In caso di espropriazione di area fabbricabile l'indennità è ridotta ad un importo pari al valore indicato nell'ultima dichiarazione denuncia presentata dall'espropriato ai fini dell'applicazione dell'imposta, qualora il valore dichiarato risulti inferiore all'indennità di espropriazione determinata secondo i criteri stabiliti dalle disposizioni vigenti”. Tuttavia, questo criterio risulta di scarsa e difficoltosa applicazione, anche in considerazione di quanto stabilito dalla giurisprudenza tributaria, secondo la quale tale criterio non può essere applicato nel caso in cui manchi l’ultima dichiarazione ICI.
Attualmente, l’interprete che si occupa di espropriazione forzata è privo di ulteriori parametri per il calcolo del giusto indennizzo, ed è perciò in attesa di un intervento del legislatore in materia.

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