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Il diffusionismo, il funzionalismo e lo strutturalismo


In parte le istanze dei diffusionisti vennero riprese dalla scuola tedesco – americana, sviluppatasi negli USA all’inizio del Novecento, con i maggiori esponenti in  Franz Boas (1858 – 1942), Robert Lowie (1883 – 1957), Edward Sapir (1884 – 1939), Alfred Kroeber (1886 – 1960) e ClydeKluckhohn (1905 – 1960), tutti di madrelingua tedesca e con studi fatti in Germania o in Austria. Affinando la teoria delle aree culturali spostarono l’accento sul particolare, il "tratto culturale": elementi che potevano contribuire a determinare un insieme culturalmente omogeneo tenendo conto delle specificità storiche di ogni area.
In Francia le riflessioni di Emilie Durkheim (1858 – 1917) diedero vita alla scuola sociologica francese, che si fondava sull’osservazione empirica per conferire uno statuto di scientificità ai dati e sull’idea di considerare i fenomeni sociali come fatti aventi una vita propria, indipendente dall’apporto dei singoli. In pratica, la cultura precederebbe la società, che sarebbe determinata da una coscienza collettiva superiore a quella del singolo. Suo allievo fu Marcel Mauss (1872 – 1950), che può essere considerato il fondatore della tradizione etnologica francese. Teorizzò i fatti sociali totali, quegli aspetti particolari di una cultura che sono in relazione con tutti gli altri aspetti di quella cultura: attraverso l’analisi di un fatto sociale totale, quindi, è possibile leggere per estensione le diverse componenti di una società.

La grande svolta è legata ai nomi di Bronislaw Malinowski(1884 – 1942) e Reginald Radcliffe-Brown (1881 – 1955), che ruppero con le tradizioni precedenti, abbandonando il loro studio per recarsi sul terreno, dando vita alla pratica dell’osservazione partecipante. Malinowski andò nelle isole Trobriand e Radcliffe-Brown nelle isole Andamane, svolgendo le loro ricerche nel secondo decennio del Novecento, dando vita alla corrente essenzialmente britannica del funzionalismo, termine che deriva dalla metafora organica utilizzata per descrivere le società umane. Queste sarebbero la risultante dell’azione di diverse funzioni che, come gli organi del corpo umano, lavorano per mantenerlo in vita. Tra i due padri fondatori sorsero però delle divergenze: per Malinowski la funzione delle istituzioni sociali era quella di soddisfare i bisogni biologici dell’individuo (funzionalismo biologico), mentre per Radcliffe-Brown, il fine delle diverse componenti era di mantenere l’equilibrio della struttura sociale (struttural-funzionalismo). Entrambi si erano disinteressati della dimensione storica, rivalutata in seguito da Evans-Pritchard (1902 – 1973), che fece ricerche in Africa che lo aiutarono ad affinare la prospettiva funzionalista introducendo la dimensione diacronica.
La principale critica mossa al funzionalismo è quella di una lettura statica delle società, ripresa poi negli anni Cinquanta dagli antropologi della Scuola di Manchester: Max Gluckman (1911 – 1975), Victor Turner (1920 – 1983) e Edmund Leach (1910 – 1989) spostarono l’accento sul conflitto e sulle dinamiche interne a ogni società, vista non più come un organo in equilibrio statico, ma come il prodotto di un continuo processo di trasformazione, basato sul conflitto.

Lo strutturalismo, che ebbe come precursore Henry Lewis Morgan, fu determinante l’opera di Claude Lévi-Strauss. Lo strutturalismo, sotto l’influenza delle teorie linguistiche e psicologiche, ha come obiettivo il dimostrare l’unità psichica del genere umano attraverso l’individuazione di categorie universali della mente. Le diversità culturali sarebbero delle varianti di temi costanti, insiti nella struttura psichica umana.
Di scuola prettamente francese fu l’antropologia marxista, sviluppatasi negli anni Sessanta, che voleva uscire dalle strette maglie dell’analisi di Marx, troppo etnocentriche e impossibili da applicare in contesti extraeuropei: individuò modi di produzione diversi da quello capitalista senza perdere di vista le questioni legate alla stratificazione sociale, all’interrelazione tra modello economico e struttura sociale e ai rapporti tra colonizzati e colonizzatori. In Italia si sviluppò all’ombra del pensiero di Gramsci, che si occupò con altri antropologi del folklore e delle culture contadine dell’Italia del Sud.
L’antropologo americano Marvin Harris, riprendendo i tre livelli marxisti infrastruttura, struttura e sovrastruttura, propone una prospettiva che conduca a una vera scienza della cultura e alla individuazione di leggi generali che regolano le società umane: il materialismo culturale. Si fonda sul principio secondo cui l’infrastruttura, che comprende i modelli di produzione e di riproduzione, oltre all’ambiente, determinerebbe la struttura (economia, gruppo familiare, organizzazione politica), a sua volta determinata dalla sovrastruttura, cioè l’apparato ideologico, religioso e simbolico di ogni società. Ha molti punti in comune con la corrente dell’ecologia culturale, che si sofferma analizzando prevalentemente gli aspetti relativi all’adattamento e all’economia: più che di culture si occupano di popolazioni, perché le culture non muoiono di fame, mentre le popolazioni sì.
Se materialisti ed ecologi culturali si basano su uno sguardo esterno per ricondurre il tutto a leggi generali, opposto è l’interpretativismo di Clifford Geertz (1926 – 2006). Abbandona il metodo comparativo per puntare l’obiettivo sui significati locali, indigeni, dei fatti culturali, che possono essere compresi solo facendo riferimento al quadro simbolico della cultura che li produce. L’etnografia, caratterizzata da una descrizione densa, sarebbe pertanto una pratica fine a se stessa.
Alla fine degli anni Settanta negli Stati Uniti prende forma la scuola di pensiero postmodernista, la cui attenzione si sposta sul processo di produzione del testo etnografico. I rapporti tra osservatori e osservati vengono messi in discussione, si analizzano i processi di scrittura, le retoriche descrittive, portando l’antropologia su un terreno più prossimo alla letteratura e trasformando l’analisi antropologica in una critica culturale sempre più rivolta alla nostra società.

Tratto da IL PRIMO LIBRO DI ANTROPOLOGIA di Elisabetta Pintus
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