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Studio antropologico: produrre, scambiare, consumare


Che viva come parassita sfruttando ciò che la natura gli fornisce, che agisca sull’ambiente per spremerne risorse, l’uomo è costretto per sopravvivere a operare al fine di ricavare e trasformare beni di sostentamento, manufatti e servizi più o meno indispensabili e che possono produrre reddito: tutte cose che rientrano nella categoria "economia".
L’uomo è un po' tutti e due: per sostentarsi ha bisogno di cibo, per ripararsi dal freddo deve confezionare abiti e costruire abitazioni, e per realizzare tutto ciò ha bisogno di attrezzi, utilizzando sempre risorse naturali. Può agire nel modo più semplice della caccia-raccolta, che procura il cibo grazie a un’attività, sessualmente connotata, che vede gli uomini recarsi a caccia e le donne dedicarsi alla raccolta di piante, bacche, frutti, tuberi che crescono spontanei. La caccia non viene sostituita ovunque dall’agricoltura, in seguito alla sedentarizzazione: non è naturale per tutti cercare una dimora fissa, come viene testimoniata dai tuareg, dai lapponi, dagli inuit e dagli aborigeni australiani. La vita dei cacciatori-raccoglitori non era segnata da ristrettezze, anche perché il fatto di raccogliere e di non coltivare li porta ad avere una dieta più varia e quindi più sana.
Il passaggio all’agricoltura avviene laddove le condizioni erano particolarmente favorevoli, e nasce nella cosiddetta mezzaluna fertile della regione che va dall’antico Egitto alla Mesopotamia: qui, oltre alle condizioni climatiche favorevoli, si trovano in natura la maggior parte delle piante domesticabili. Il processo di domesticazione, che attraverso la selezione consente di rendere più produttive le piante selvatiche, è alla base del boom agricolo avvenuto nel Neolitico, con un processo simile per quanto riguarda gli animali.
Da parassita della natura l’uomo si trasforma in produttore stanziale, causando profondi mutamenti nell’organizzazione sociale e politica: il modello agricolo impone stanzialità e determina una maggiore densità di popolazione, che ovviamente richiede una sempre più complessa organizzazione e stratificazione, ma comporta anche più malattie e più rapidità di contagio. Anche l’allevamento richiede spesso la pratica del nomadismo o della transumanza, così da sfruttare al meglio i diversi piani o spazi ecologici ai fini del pascolo: il pastoralismo nomade viene oggi considerato come un ramo specializzato dell’attività agricola, per meglio sfruttare le terre aride. Società nomadi pastorali si trovano in Africa (peul, tuareg e somali), in Asia (tibetani, kazaki, kirghisi, beduini), in Europa (lapponi e samoiedi) e in America meridionale (gruppi andini). I pastori, in genere, intrattengono un rapporto di complementarità e conflittualità con gli agricoltori, poiché si trovano a sfruttare in modo diverso gli stessi terreni. Se in alcune regioni l’attività pastorale si è sviluppata in zone aride o semiaride, dove non potrebbe mai operare anche l’agricoltura, in altre regioni le due attività occupano gli stessi spazi. L’esistenza errante non pregiudica però i contatti con i gruppi sedentari, con i quali i pastori intrattengono scambi: la dieta ricca di proteine dei pastori nomadi viene così integrata con cereali ottenuti dallo scambio con agricoltori incontrati. I nomadi quindi non potrebbero mai vivere da soli, ma il fatto di essere mobili ne fa una categoria che sfugge alle classificazioni di chi conduce una vita sedentaria e desta sospetti, tanto che vengono appellati in modo dispregiativo, si pensa non abbiano voglia di lavorare, rubino e non hanno dimora fissa.

Tratto da IL PRIMO LIBRO DI ANTROPOLOGIA di Elisabetta Pintus
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