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Evoluzione storica dei concetti di malattia mentale


Per meglio comprendere le varie condizioni psicopatologiche di cui parleremo non è certo inopportuno qualche cenno sull’evoluzione storica dei concetti di malattia mentale che è stata schematizzata nelle seguenti fasi:

1.la concezione colpevolistica della cosiddetta follia, che è propria delle epoche antecedenti all’Illuminismo e per la quale la follia veniva intesa, anziché come una malattia, più spesso come un fatto di natura magica o come effetto di una possessione demoniaca o di una condotta profondamente peccaminosa.
Sicché il folle, in assenza di una precisa distinzione tra colpa e malattia, veniva sovente ritenuto colpevole e, perciò, meritevole di punizione;

2.la concezione della follia come semplice alterazione della mente, che è propria dell’epoca razionalistico-illuministica e per la quale la malattia mentale era intesa essenzialmente come stravaganza o difetto di volontà o di autocontrollo, da affrontare in termini pedagogico-educativi.
Sicché il folle veniva percepito non tanto come malato, quanto come un soggetto da rieducare;

3.la concezione organico-patologica della pazzia, che è propria del positivismo scientifico della seconda metà dell’800 e per la quale la pazzia viene intesa come una malattia simile alle altre malattie nel corpo, da affrontarsi in termini medici e naturalistici.
Sicché il pazzo viene percepito come un malato nel corpo da curare, restando estranea alla terapia ogni considerazione della storia del soggetto, di problemi psicologici e di vita, delle difficoltà esistenziali, dei rapporti interpersonali e dell’ambiente sociale.
Si sviluppa il sistema manicomiale che assolve la duplice funzione di luogo di cura e di luogo di custodia dei malati di mente, di cui viene esasperata la pericolosità sociale;

4.la concezione psicoanalitica dei disturbi mentali, che si sviluppo all’inizio del secolo con Freud e per la quale il disturbo psichico viene inteso come l’effetto di un “disagio psicologico”, di un “conflitto intrapsichico”.
Sicché il pazzo è considerato non più come un individuo radicalmente diverso dai soggetti normali, ma come un soggetto che soffre e che non ha retto ai conflitti della vita, non esistendo differenze sostanziali tra i dinamismi psicologici dell’individuo malato di mente da quelli dell’individuo normale.
Il malato di mente, riacquistando una propria dimensione umana, perde quel carattere minaccioso ed incomprensibile di un tempo;

5.la concezione psico-sociologica della malattia mentale, che si sviluppò a partire dagli anni ’30 e per la quale le malattie mentali vengono intese come il frutto non tanto di una conflittualità psicologica individuale, bensì di un “conflitto interelazionale” tra individuo e individuo e tra individuo e società.
E in questa prospettiva si è andato sottolineando il valore che, nella genesi dei disturbi psichici, hanno le difficoltà di comunicazione interpersonale nell’ambito familiare;

6.la concezione della malattia mentale come devianza, che costituisce la punta più radicale del pensiero psicologico in materia di malattie mentali.
Si nega la stessa esistenza della malattia mentale come tale, la quale non sarebbe più l’effetto di problemi individuali, ma semplicemente l’espressione e la conseguenza di un conflitto sociale: della lotta di classe.
Sicché il malato di mente, non esistendo più come tale, sarebbe un semplice deviante, che come gli altri devianti viene emarginato dal potere.
E su queste premesse la corrente della “anti-psichiatria”, ravvisando nel folle semplicemente un escluso, un emarginato, ha posto in discussione l’esistenza stessa della psichiatria.

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