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Il limbo come ultima chance di una valorizzazione simmetrica


I fumi dell’incidente stradale (all’inizio del film) e i fumi del suicidio teatrale (alla fine del film) siglano il catastrofico esito di una intersezione di mondi che è destinata all’’’informale’’, alla rottura di una misura “urbana”, all’asimmetria. Rita si rifà una vita con pezzi di identità filmica (come detto, parte da un vecchio manifesto cinematografico per reinventarsi un nome), mentre Diane parrebbe sacrificarsi sul teatro di Méliès (il suo suicidio è un colpo d’illusionismo) per appaiare infine l’amante uccisa, e vivere “postuma” solo in quanto Betty, dentro un film visionario, inassimilabile alla vita dello star system. In realtà, se ogni esito è bilateralmente tragico (la premonizione del proprio corpo morto e la destinalità da incubo reificata dall’homeless), solo il transito per una dissolvenza incrociata tra mondi sembra costruire quella bordura scoscesa entro la quale sostare tra l”‘irregimentazione urbana delle acque” e la “loro tracimazione selvaggia”.
Il Club del Silenzio è un teatro di personaggi muti di fronte alla performance (propria o altrui): è un teatro in cui si celebra l’autoassoluzione rispetto alla colpa di una (com)presenza di troppo, o quanto meno essa può essere conservata solo a prezzo di un tacere interstiziale, di una segretazione dei segni (pena la loro reificazione registrata). Dove sta la voce vera durante il playback? E quando si sviene, sottraendosi alla pura incarnazione fittiva di una registrazione per sempre reale, dove si finisce, se non in un limbo?
Da una parte, il Club del Silenzio è fatto per iscritti che imparano a non iscriversi, a tacere; dall’altra, la recita del silenzio è la denuncia più aperta dell’autoriproduzione sterile delle connessioni sociali, dei dispositivi di rappresentazione. Il più grande colpo di teatro è la denuncia che non c’è performance in atto. Era già tutto scritto. Si è finiti preda di un copione previsto (ecco un’altra tangenza con Lost Highway).

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