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La tuta spaziale


La tuta spaziale, corredata da un casco, diviene una frontiera impenetrabile dagli agenti esterni (quali temperature smodate, virus sconosciuti, ecc.) e una sorta di ecosistema autocontenitivo (le bombole d’ossigeno costruiscono uno spazio-ambiente di vivibilità che il corpo porta presso di sé). Tale osservazione ha un portato alquanto ampio e interessante. Infatti, la protesicità che abbiamo attribuito al vestito viene ribadita ed esaltata dalla tuta; quest’ultima diviene, infatti, un ricettacolo delle funzioni normalmente svolte da altri oggetti.
Il cinema di fantascienza dispiega davanti ai nostri occhi una logica che ben si presta a un’esplicazione antifrastica: tanto più estesa si fa la conquista dello spazio, come in preda a una espansione centrifuga nell’universo correlativa di una curiositas inappagabile, quanto più la tuta diviene l’epicentro di una forza centripeta che tende a reclamare a sé qualsiasi forma protesica. Il macrocosmo a cui ci si vota sollecita un microambiente a contatto di pelle pronto a introiettare ogni disponibile strumentalità concepita: ecco che la tuta diviene protesi locomotoria (consente di volare), dispositivo d’armamento, sistema di rilevamento e più in generale” computer di bordo”.

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