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Retribuzione minima, contratti collettivi e art. 36 cost.


L’art. 20992 c.c. attribuisce in via primaria ai contratti collettivi la funzione di stabilire la misura della prestazione dovuta dal datore di lavoro.
La funzione fondamentale del contratto collettivo è, infatti, quella tariffaria: la funzione delle regole o norme comuni relative alla determinazione della retribuzione corrisponde ad un interesse che non è meramente individuale del singolo prestatore di lavoro, ma riflette quello collettivo di tutto il gruppo professionale.
Tale interesse collettivo è realizzato attraverso la fissazione dei minimi retributivi.
È noto, d’altronde, come la fissazione della misura minima della retribuzione sia stata la funzione primaria ed originaria della contrattazione collettiva.
La legge tuttavia non si disinteressa della misura della retribuzione.
Infatti il rinvio legislativo alla fonte di derivazione contrattuale non è assoluto e la misura della retribuzione non è demandata alla competenza esclusiva dell’autonomia collettiva, come potrebbe sembrare dalla formulazione del primo comma dell’art. 2099 c.c.
A questa disposizione fa riscontro la norma dell’art. 36 cost., in virtù della quale è riconosciuto al lavoratore il diritto soggettivo alla retribuzione minima sufficiente; precisamente, il lavoratore ha diritto ad una retribuzione “proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
L’art. 36 cost. adotta una formulazione generica indicando nei criteri della proporzionalità e della sufficienza i requisiti essenziali, e quindi non solo inderogabili dall’autonomia privata individuale e collettiva, ma altresì vincolanti nei confronti del potere legislativo, per la determinazione della retribuzione.
Si tratta di una norma-principio e non di una clausola generale, perché il riferimento ai requisiti della proporzionalità e della sufficienza, senza essere specifico, non è tuttavia indeterminato.
Infatti l’art. 36 cost. non lascia uno spazio da riempire attraverso l’apprezzamento discrezionale ed in definitiva equitativo del giudice, bensì indica direttamente nei requisiti della proporzionalità e della sufficienza i parametri ai quali il giudice, come ogni altro interprete, è tenuto a conformarsi per valutare secondo criteri oggettivi (e dunque secondo le regole di mercato) e non meramente soggettivi, l’adeguatezza dello scambio tra la prestazione e la retribuzione del lavoro.
In virtù del requisito della proporzionalità, infatti, la retribuzione deve essere determinata secondo il criterio oggettivo di equivalenza alla quantità e ala qualità del lavoro.
Pertanto la sua commisurazione dipende non solo dalla durata e dall’intensità del lavoro, ma anche dal tipo di mansioni espletate e dalle loro caratteristiche intrinseche (specializzazione tecnica, responsabilità professionale, difficoltà e gravosità dei compiti).
Il secondo requisito previsto dall’art. 36 cost., il requisito della sufficienza, è molto più importante: per esso la misura minima della retribuzione deve andare oltre il minimo vitale o di sussistenza.
Peraltro, nelle ipotesi di c.d. lavoro plurimo (cioè alle dipendenze di più datori, con coesistenza di più rapporto di lavoro in testa ad un unico prestatore) ed in generale in tutte le ipotesi di lavoro a tempo parziale, ai sensi dell’art. 36 cost. la retribuzione va determinata dapprima sulla base del criterio di sufficienza e con riferimento alla qualità della prestazione resa dal lavoratore ed in seguito proporzionata alla quantità del lavoro prestato.
La retribuzione minima sufficiente, dunque, non è un autonomo diritto personale del lavoratore, ma si configura come connotato essenziale del suo diritto di credito all’interno del rapporto di lavoro al quale, proprio in virtù del principio sancito dall’art. 36 cost., l’ordinamento assegna una funzione di sostentamento del lavoratore e non soltanto di corrispettivo della sua prestazione.

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