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Sul campo: oggetto di ricerca in ambito antropologico


Il metodo su cui si basa l’antropologia è l’etnografia: è il lavoro sul campo dove il ricercatore partecipa alla vita quotidiana di una cultura differente, osserva, registra, tenta di accedere al punto di vista indigeno e scrive. I fondatori di questo metodo sono Boas (1886, tra gli indiani della costa occidentale degli USA) e Malinowski (1914, tra gli abitanti delle isole Trobriand, Nuova Guinea), aprendo una fase nuova della disciplina basata su monografie, descrizioni minuziose e il più complete possibili, con il loro recarsi di persona a condurre inchieste sul campo anziché speculare sui resoconti di esploratori, viaggiatori, militari e missionari. Hanno contribuito anche a creare l’immagine romantica dell’etnografo impegnato nella descrizione di strani costumi in posti lontani.
La parola campo indica insieme un luogo e un oggetto di ricerca, ed è un termine fondamentale in ambito antropologico.
L’efficacia dell’inchiesta sta più nell’apprendimento spontaneo che nella ricerca consapevole e attiva: immergendosi in una cultura diversa dalla nostra, essa informa e forma molto più di quanto si sia consapevoli, grazie al cosiddetto sapere per familiarizzazione o per impregnazione, un sapere che affiora appena alla coscienza, ma che si traduce nella sensazione di conoscere lo scenario nel quale avvengono gli avvenimenti.
L’esperienza permette di farci dire che cosa succederà e di non ignorare le regole implicite di una cultura, di non essere totalmente alla mercé della diversità dei fenomeni, ma di riuscire a distinguere l’informazione dai rumori circostanziali. La prova del campo impedisce di abbandonarsi a creazioni arbitrarie, di proiettare su una realtà sociale ciò che si desidera vedervi, di privilegiare i propri interessi soggettivi o quelli degli interlocutori, lottando tra due tendenze opposte: la prima è quella che lascia libero corso alla potenza organizzatrice delle proprie abitudini, banalizzando le impressioni che arrivano dall’esterno; la seconda è quella che spinge a definire la propria missione come una raccolta di differenza, che porterebbe a collocare qualsiasi informazione esterna al suo gruppo di origine sotto in segno di una intrinseca estraneità.
In tutti i casi, dev’essere consapevole del fatto che raccogliere un’informazione non significa solo sintetizzare dati sensibili, ma anche modificarli, perché si crea una rappresentazione che prima non esisteva come tale; bisogna distinguere la regola come ipotesi teorica del ricercatore dalla regola come ipotesi teorica dei suoi interlocutori, considerando che la regola che governa realmente i comportamenti può essere distinta dalla prima e dalla seconda. Il lavoro di raccolta dati deve essere subordinato alla costruzione teorica del proprio oggetto di ricerca: la realtà non è data, ma costruita dal ricercatore; la nostra stessa percezione crea per difetto (seleziona le impressioni che corrispondono alle nostre idee) e per eccesso (può esagerare certi tratti).
Per questo un ricercatore ben preparato si sforzerà di rimettere in discussione le proprie classificazioni, i propri montaggi della realtà, per essere certo di non creare egli stesso l’oggetto che vuole studiare. Questo esercizio di decostruzione ha faticato a imporsi contro gli a priori empiristi e positivisti: si deve lottare contro i propri automatismi per avere una base solida nelle descrizioni, moltiplicando i punti di vista senza pretendere di abbracciare la totalità dell’oggetto.
Sul campo, l’antropologo si vede proposti in continuazione temi e interessi che non coincidono con le categorie della propria cultura; l’informatore, inoltre, fornisce informazioni che sono inserite dall’antropologo in un insieme che egli ignora: se chi sa non dice tutto quello che sa, il sapere che cede gli è in un qualche modo rubato, fatto imputabile però anche a quello che viene imputato di conoscere l’ uno all’altro. Per questo l’antropologo deve mettersi in ascolto, creare uno spazio anche per gli interrogativi e i dubbi dell’informatore, considerandolo anche un interlocutore.
Se va condannato l’uso esclusivo del questionario, è esagerato però affermare che non serva a niente, perché questi sforzi pedagogici comunque portano a qualcosa, grazie alla capacità di spiegarsi. Per questo, all’inizio di un’inchiesta sarebbe meglio un lungo soggiorno sul campo per conoscere ad osmosi costumi, lingua e usanze, non trascurando gli aspetti non verbali dell’assimilazione dei codici sociali, e stringendo amicizia con gli individui del gruppo: è una condizione simile a quella di uno studente. Deve riflettere su se stesso: una dimensione critica, principio fondamentale dell’analisi transculturale. Negli anni ’70 si è assistito a un proliferare di opere consacrate all’inchiesta sul campo, mettendo in luce il carattere unico di un’esperienza dove l’osservatore è il proprio strumento di ricerca. Il ricercatore, nel corso del proprio soggiorno sul campo, è costretto a immergersi al di fuori della proiezione data dal conformismo verso un ordine particolare del mondo, assistendo a diversi tentativi compiuti dagli uomini per vivere il mondo e dargli un senso, partecipandovi e offrendone testimonianza. L’esperienza del campo provoca un disagio doppio ma salutare: quello materiale (dove capisce che non è scontata nessuna definizione a priori di una vita normale) e quello che lo costringe a lacerare la trama delle abitudini e di idee belle che gli sono servite da protezione. Si sente personalmente trasformato dall’esperienza.

Lo studio del contesto storico nella pratica antropologica ha messo in evidenza la dimensione politica del ruolo dell’antropologo in quanto erede del colonialismo. Lo stereotipo dell’antropologo come maestro è dovuto in gran parte alla scarsità di testi di riflessione che attestino l’impotenza dell’etnografo. Inoltre, quando si confronta con la differenza culturale, fa luce sui fondamenti delle concezioni specifiche della propria cultura. Oltre ai doni e alle retribuzioni, capita spesso che l’etnologo sia recuperato e utilizzato nelle strategie locali, venendogli così difficile rimanere neutrale: certi territori invitano e costringono l’antropologo a impegnarsi moralmente, socialmente, politicamente.
La concezione del campo come spazio di sperimentazione, come laboratorio o come riserva, è oggi contestata dai teorici della globalizzazione e della mobilità delle culture, con movimenti più rapidi di popolazione, con un lavoro sul campo con una forma reticolare per seguire il movimento: si studiano i campi profughi, le comunità virtuali, non andando quindi per forza in una terra incognita.

Tratto da L'ANTROPOLOGIA DEL MONDO CONTEMPORANEO di Elisabetta Pintus
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